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Dati personali: la Corte europea cancella la direttiva Ue

Pesante botta contro l’allegria liberista con cui ha fin qui proceduto la Commissione Europea, ovvero il “governo” dell’Unione.

La Corte di giustizia Ue ha dichiarato “invalida” la direttiva sulla conservazione dei dati perché “comporta un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario”.
Erano state l’Alta Corte irlandese e la Corte costituzionale austriaca a chiedere alla Corte di giustizia di esaminare la validità della direttiva, alla luce di due diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti dell’Unione europea, ossia il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale. Princìpi che non erano apparsi ai Commissari degni di nota rispetto a quuello, assolutamente prioritario, del profitto di impresa.

La Corte irlandese aveva interpellato la Corte Ue perché è chiamata a pronunciarsi su una controversia tra la società irlandese Digital Rights e le autorità irlandesi sulla legittimità di provvedimenti nazionali riguardanti la conservazione di dati relativi a comunicazioni elettroniche.

Anche la Corte austriaca aveva lo stesso problema, in diversi ricorsi in materia costituzionale presentati dal governo del Land di Carinzia e da 128 ricorrenti.
“Con la sua odierna sentenza, la Corte dichiara la direttiva invalida”, si legge nella sentenza. Ovvero come mai emessa e da non rispettare.

La Corte ha rilevato che i dati da conservare consentono di sapere con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato, di determinare il momento della comunicazione nonché il luogo da cui ha avuto origine e di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Tali dati “possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni sociali e gli ambienti sociali frequentati”. Uno screening totale che dovrebbe risultare intollerabile a chi si professa “liberale”, persino nel caso che a metterlo in atto sia un governo pienamente legittimato da un voto popolare. Figuriamoci se – come in questo caso – si tratta invece di una possibilità concessa ad imprese private da un “governo” programmaticamente esente da ogni legittimazione democratica. Non è mai inutile ricordare, infatti, che la Commissione Europea è composta da membri nominati dai singoli governi nazionali (2 a testa per i paesi grandi, uno solo per quelli minori); mentre il “parlamento” per cui si voiterà il 25 maggio non possiede nessun potere di fare le leggi, alcontrario di qualsiasi altro Parlamento in regime di democrazia liberale.
La Corte ha ritenuto che la direttiva, “imponendo la conservazione di tali dati e consentendo l’accesso alle autorità nazionali competenti, ingerisca in modo particolarmente grave nei i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale”. Inoltre, “il fatto che la conservazione ed il successivo utilizzo dei dati avvengano senza che l’abbonato o l’utente registrato ne siano informati può ingenerare negli interessati la sensazione che la loro vita privata sia oggetto di costante sorveglianza”. Qui la Corte usa un eufemismo quasi ridicolo. La nostra vita è controllata passo passo: non è una “sensazione” soggettiva, ma una realtà di fatto.

La Corte censura, infine, il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’Unione. In pratica, i grandi motori di ricerca e stoccaggio dati – soprattutto statunitensi – hanno fin qui fatto quello che gli pare. Usandoci come “sacche di informazione” vendibile a loro disposizione. Oltre che della privacy, insomma, potremmo lamentare anche una espropriazione fattuale di un “bene” vendibile. E venduto a nostra insaputa.

 

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