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La Gran Bretagna minaccia l’uscita dalla Ue

Inizia malissimo – o benissimo – la nuova “legislatura” europea. Il primo vertice intergovernativo dopo le elezioni ha visto una serie di paesi prendere posizione contro l’affidamento della presidenza dell’Unione Europea al popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker. Il più “pesante” tra questi è certamente la Gran Bretagna, da sempre molto euro-tiepida, che ha visto trionfare l’Ukip di Nigel Farage, ultraconservatore a favore dell’uscita del paese dall’Unione.

Il primo ministro conservatore David Cameron ha quindi posto un aut aut mai ascoltato prima a Bruxelles: o si assegna la presidenza a un rappresentante della “nuova Europa” oppure gli inglesi rompono il loro rapporto con la Ue. Gli argomenti usati sono quelli di moda nella comunicazione politica attuale: Juncker è “vecchio” (e in effetti tra poco avrà 80 anni), quindi anagraficamente impossibilitato ad affrontare i “nuovi” problemi. Soprattutto è uomo legato alla “vecchia” concezione dell’Unione, ovvero sostenitore della continuità nel percorso verso una maggiore integrazione politica. Difficile che accada davvero, è una minaccia per ottenere quel che vuole. Ma il tabù è rotto.

Non è una rottura da poco, anche se la Gran Bretagna è rimasta fuori della moneta unica. Perché è un segnale di almeno due pressioni convergenti: quella interna ai singoli paesi, in cui le popolazioni colpite dalla crisi e dalle risposte “austere” imposte dalla Troika hanno iniziato a individuare nell’Unione il problema e non la soluzione; quella esterna del capitale finanziario predominanza anglosassone e statunitense, che punta invece al “mercato unico transatlantico”, naturalmente fondato su regole e standard made in Usa.

Gli inglesi non sono però soli in questa opposizione alla maggiore integrazione politica dell’Unione. Al loro fianco sono schierati – nonostante la Germania si sia spesa, con la Merkel, nell’appoggio esplicito a Juncker – olandesi, finlandesi, svedesi e ungheresi. E possono contare sulla presenza nell’europarlamento di numerose e diversificate formazioni “euroscettiche” presenti in tutti e 28 i paesi, che coprono ormai l’intero arco politico: dall’estrema destra (Alba Dorata, Npd, Jobbik) all’estrema sinistra (Kke, comunisti portoghesi, socialisti olandesi), passando anche per il centro liberale (Alternative fur Deutschland) o il “centrodestra moderato” (Ukip).

Il parlamento europeo, lo ripetiamo sempre, non ha alcun potere legislativo; quindi non decide assolutamente nulla. Ma è l’espressione più o meno fedele degli umori politici all’interno dei 28 paesi aderenti all’Unione. Umori che segnano tempesta e costringono persino gli “europeisti” più determinati a spendersi a favore di un “cambiamento” sostanziale nei meccanismi decisionali, a partire dalle politiche economiche, dell’Unione. E soprattutto nell’area dei paesi che hanno già adottato la moneta unica, i cui vincoli oggettivi stanno ridisegnando la divisione del lavoro del continente. Per brevità, ricordiamo che già Marx spiegava – con la forza di una legge economica incomprensibile per gli economisti borghesi – come il mettere sotto il dominio della stessa moneta aree economiche con diversa composizione organica (rapporto tra capitale fisso e capitale variabile, ossia con maggiore o minore uso di tecnologie produttive che consentono di “risparmiare” manodopera, aumentando così la “produttività”) implica una conseguenza necessaria: nelle aree più sviluppate la composizione organica aumenta ancora di più, mentre in quelle meno competitive tende a diminuire.

È quello che stiamo vedendo da anni in tutti i paesi Piigs, tra deindustrializzazione, svendita del patrimonio produttivo, diminuzione dell’occupazione, compressione dei salari, “riforme” del mercato del lavoro che favoriscono la precarietà sottopagata. Perché gli unici spazi di mercato che restano disponibili nell’eurozona sono appunto quelli a bassa composizione organica del capitale, o – in linguaggio “capitalistico” – ad alta intensità di lavoro su macchinari antiquati o di basso livello tecnologico (che hanno richiesto insomma poco investimento).

Un processo di trasformazione produttiva che a livello sociale viene percepito come impoverimento e disoccupazione, taglio dei servizi sociali e delle garanzie contrattuali, riduzione del welfare e degrado generale. Attenzione, però! Questo sentiment non rispetta alcuna linea di confine nazionale, ma percorre invece i sentieri della stratificazione sociale. Se dunque il rifiuto dell’”austerità europea” è dominante in alcuni paesi, è comunque presente anche in quelli che meno avrebbero da lamentarsi. Nel capitalismo attuale, insomma, primo mondo e terzo mondo sono compresenti nello stesso territorio, nelle stesse metropoli; grattacieli e slums sono spesso addirittura gli uni di fronte agli altri.

La costruzione dell’Unione Europea – uno Stato, non un’area geografica “pacifica e solidale” – incontra dunque problemi crescenti di consenso. Li trova nelle classi dominanti che vedono le contraddizioni insanabili presenti nella creatura che loro stesse hanno messo in piedi e corrono alla ricerca di soluzioni alternative (il trattato di libero scambio transatlantico, per esempio); li trova a maggior ragione tra quanti sono chiamati a pagare fisicamente il prezzo di queste contraddizioni.

Nell’ideologia del “pensero unico” tutto ciò viene accomunato sotto la definizione di “euroscetticismo”, e la montante protesta (ancora molto “impolitica”) etichettata come “populismo”.

E populisti e fascisti non mancano davvero nel panorama europeo attuale… E diventano un problema anche per la classe dominante. In genere, infatti, il fascismo – con tutti i suoi ammennicoli identitari, razzisti, machisti, ecc – viene favorito e nutrito per contrastare una “pericolosa” presenza comunista, o il moltiplicarsi delle lotte di lavoratori, disoccupati, precari, senza casa, ecc. Ma se questo “nemico naturale” contro cui i fascisti vengono facilmente e altrettanto naturalmente indirizzati è molto debole, o quasi inesistente, allora diventa un problema per la stessa classe dominante.

È da qui, insomma, che nasce quell’“allarme antipopulista” che viene suonato da tutte le cancellerie europee. È da qui che germina quel discorso perbenista e finto progressista per cui criticare l’Unione Europea, pretendere di rompere i suoi meccanismi inchiavardati nei trattati – tutti, nessuno escluso – è un segno di “populismo”, “fatalmente” destinato a sfociare nel fascismo o a ritrovarcisi in compagnia.

È un pericolo che abbiamo ben presente, al punto che da tempo denunciamo sia “l’attivismo” neofascista (cui il potere, come sempre, garantisce libertà d’azione e la semi-impunità), sia i consueti tentativi rosso-bruni di creare zone di commistione incestuosa tra sgherri del potere e confuso ribellismo “popolare”.

Ma questo non può e non deve impedire di sviluppare una critica radicale dell’Unione Europea, altrimenti non resta altra soluzione che disporsi disciplinatamente ai suoi ordini, sia pure scalpitando e maledicendo la sola “austerità”. La quale, poveretta, rischia ormai di ritrovarsi orfana. Avete fatto caso a quanti ora dicono “basta con l’austerità”? Facciamo un elenco breve, solo italiano, per non dover riempire pagine: Renzi, Napolitano, Confindustria, Banca d’Italia, Censis, Corriere della sera e tutta la stampa padronale…

In Europa idem. Probabilmente resterà a difenderla anche pubblicamente soltanto Angela Merkel, perché il suo potere dipende dagli elettori tedeschi, cui lei stessa ha insegnato che l’austerità serve per non essere costretti a pagare i debiti dei paesi “cicale”.

È possibile dunque costruire un’opposizione di sinistra radicale, antagonista, al potere dominante – l’Unione Europea, la Troika, ecc – limitandosi a inveire contro la sola austerità? Secondo noi, no. Non si accorgono, tanti compagni incanutiti dell’elettoralismo a tutti i costi o persino nello “scadenzismo” seriale di piazza, che così facendo si resta all’interno dell’ordine del discorso del potere? Non si accorgono, insomma, che la realtà sociale sta individuando il nemico molto più precisamente e rischia – per incapacità “nostra” – di consegnarsi a soluzioni di ripiego, sempliciste, nazionaliste?

La manifestazione nazionale del 28 giugno, appena convocata da un vasto arco di forze sindacali, politiche, di movimento, serve a riempire questo vuoto. A creare un’alternativa politica di massa. A uscire dall’angolo e riprendersi il futuro.

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L’articolo con cui IlSole24Ore presenta le minacce dell’inglese Cameron.

 

David Cameron: se Juncker presidente della Commissione Ue, Gran Bretagna fuori dall’Ue

Il premier britannico David Cameron ha minacciato di portare la Gran Bretagna fuori dall’Ue se Jean-Claude Juncker sarà nominato presidente della Commissione europea. Lo scrive il settimanale tedesco Der Spiegel citando fonti “vicine ai partecipanti” al vertice Ue di martedì scorso.

Per il premier britannico, che avrebbe confidato questi pensieri anche alla cancelliera Angela Merkel, la scelta di Juncker «destabilizzerebbe così tanto il suo governo che sarebbe costretto ad anticipare il referendum sull’Ue» e il risultato a quel punto sarebbe senza dubbio a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. «Un uomo degli anni 80», avrebbe detto Cameron secondo lo Spiegel, «non può risolvere i problemi dei prossimi cinque anni».

Sale così alle stelle la tensione tra Londra e Berlino. «No Juncker per favore. Siamo inglesi» avrebbe detto il premier inglese alla leader tedesca al vertice Ue di martedì scorso. Ieri Merkel aveva chiaramente indicato l’ex premier lussemburghese, candidato dal Ppe, come suo favorito per la presidente dalla Commissione. Una scelta però molto discussa tra i paesi Ue, non tutti d’accordo.

I conservatori, di cui è espressione Juncker, costituiscono la prima forza del Parlamento europeo dopo il voto di domenica scorsa. Ma l’ostilità di Londra nei confronti del politico lussemburghese è notoria e anche altre capitali, come L’Aja, Stoccolma o Helsinki, sono altrettanto reticenti. Dopo qualche giorno di suspence, ieri il cancelliere Merkel aveva rotto gli indugi ed espresso il suo esplicito sostegno all’ex presidente dell’Eurogruppo.

La possibile nomina di Juncker alla Commissione Ue ha trovato da subito molti oppositori, anche tra gli stessi conservatori che lo considerano troppo europeista e troppo legato ai passati schemi della Vecchia Europa. Oltre Cameron si oppongono alla sua nomina l’ungherese Viktor Orban, lo svedese Fredrik Reinfeldt, l’olandese Mark Rutte e il finladese Jyrki Katainen. Tuttavia l’ex premier lussemburghese ha dalla sua di essere capolista dei Popolari europei, partito confermatosi di maggioranza nelle ultime elezioni. La presa di posizione della Merkel a favore di Juncker comunque ha anche un fine interno dal momento che é argomento di aspro conflitto anche con i social-democratici della Spd, con i quali il cancelliere governa il Paese in una Grande coalizione.

I 28 paesi europei, nell’ultimo summit a Bruxelles hanno consegnato un mandato al presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy che ha già iniziato delle consultazioni per scegliere le dirigenze delle diverse istituzioni europee. Van Rompuy istruirà un dossier che presenterà con molta probabilità a un vertice a metà luglio, in piena presidenza italiana.

 

 

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