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Ha chiuso l’Unità, non restera l’unica

L’Unità chiude ancora una volta, ma Gramsci c’entra solo marginalmente. È importante però capire bene che questo ha un significato preciso: per il Pd di Renzi quel “background vetero-comunista” è ormai un peso sull’immagine e un contributo elettorale quasi marginale.

Lo diciamo in modo meno sintetico: al Pd attuale non gliene frega niente se quelli che pensano ancora a Gramsci e al socialismo non voteranno più Pd. I loro sondaggi dicono che quella banda di nostalgici (che credono ancora che la Coop sia la forma societaria del socialismo in terra, l’Unipol sia l’unica assicurazione da sottoscrivere nonostante Consorte e l’alleanza con Ligresti, che il sindaco di Bologna sia per forza di cose “un bravo compagno”, ecc) pesa elettoralmente per uno zero virgola. Gente che in buona parte va già da un’altra parte e che comunque è sottoposto alle dure leggi oggettive della fisiologia: sono in maggioranza anziani, e ogni anno sono sempre di meno.

Sia chiaro, per completezza: l’Unità entra nella procedura di liquidazione coatta amministrativa. Questo implica che il governo – il ministero dello sviluppo, ossia Lupi – dovrà nominare un commissario liquidatore (in genere un trio di professionisti in materia, non necessariamente esperti in campo editoriale). Il quale esaminerà, se ci saranno, delle offerte per l’acquisto della testata. Per ora si conosce solo quella della strana coppia Daniela Santanché/Paola Ferrari De Benedetti (sì, proprio la giornalista sportiva della Rai, sì proprio il De Benedetti di Repubblica, di cui ha sposato un figlio; dell’altra è impossibile ignorare alcunché…).

Insomma: potrebbe ancora risorgere, come testata (letteralmente: quel marchio in cima alla prima pagina che “certifica” l’identità del giornale che avete in mano). Ma non somiglierà per nulla alle molte versioni viste (e non molto lette, da qualche anno) nel secolo che abbiamo alle spalle. 

Detto quel che la cronaca impone, cosa c’è da imparare da questa vicenda?

Che il giornalismo “di partito”, in questo nuovo mondo, come si sente ripetere in ogni tg o talk show, è finito? Ci riesce difficile consentire. Mai come in questi ultimi anni abbiamo affrontato giornali esclusivamente “di partito”. Per parlare solo dell’Italia, abbiamo davanti la corazzata berlusconiana (Mediaset con le sue tre reti, Il Giornale, una serie infinita – e indistinguibile – di periodici per pensionati/e in fila dal dentista, affiancati da testate regionali più di nome che di fatto, ecc); l’incrociatore L’Espresso-Repubblica, gruppo De Benedetti, che ciurla nel manico dell’immaginario della “sinistra perbenista”, di recente approdato al renzismo spinto e senza contraccetivi; la Rai e dintorni, con i cambi di bandiera successivi a ogni tornata elettorale (cambia ì”l’azionista di riferimento”, non la logica aziendale filo-governativa). Poi ci sono (pochi) battitori liberi, come Il Fatto, praticamente al centro di un rifiuto non rivoluzionario (solo “legalitario”) dell’esistente, e qualche decina di testate online equamente sovrapposte al panorama esistente nella carta stampata. Essere (quasi) soli contro tanta potenza non ci inorgoglisce: ci preoccupa. Sa un po’ troppo di regime. Peggio: di un regime che pretende di aver liquefatto qualsiasi “identità” differenziata dal format prevalente. “Liberi”, nsomma, di pensarla come viene imposto…

Anche perché tutte queste navi potenti, ancorché battano bandiere di partiti teoricamente differenti (Berlusconi, Renzi, Grillo), garriscono all’unisono in onore del Partito liberista nazionale, quello che deve fare le “riforme strutturali” – dopo quelle costituzionali, legge elettorale compresa – per allineare la governance di questo paese agli standard imposti dall’Unione Europea e dal Fmi.

Insomma: i giornali “di partito” sono morti perché c’è un solo partito al potere. Con qualche problemino interno, certo, ma non irrisolvibile.

Che muoia dunque l’Unità, subito dopo il manifesto (sì, certo, è ancora in edicola; ma somiglia in qualcosa a quello di Pintor, Rossanda, Parlato, Chiarini, Franco Carlini, Casalini, Matteuzzi, Pascucci, Polo, Galapagos?), è solo la conferma del fatto che c’è un solo giornale possibile: quello strettamente di regime.

Ti strozza la pubblicità, prima ancora del pubblico che non c’è più.

Ma il vero cuore della questione è proprio qui. Non c’è più il pubblico che compra i giornali. Perché?

La prima ragione è la moltiplicazione dell “fonti di informazione”, ovviamente a partire da Internet e dalle migliaia di fonti disponibili nella nostra lingua (praticamente infinite in inglese). Anche a “lettori forti”, quelli che come noi leggono di tutto anche al bagno, capita sempre più spesso di sentirsi “pienamente informati” anche solo dalla frequentazione dei notiziati online; anche facendo la necessaria “tara” sull’affidabilità di ogni fonte.

Non è vero, naturalmente. Quell’informazione è strutturalmente deficitaria per ragioni oggettive. È scritta di corsa, spesso – quasi sempre – col copia-e-incolla non dichiarato (esempio: noi in questi giorni postiamo i pezzi di Nena News sui bombardamenti di Gaza, ma ve lo dichiariamo e vi invitiamo a collegarvi con quel sito; più piratesco, e anche infame, sarebbe darvi i loro “contenuti” come se li avessimo prodotti noi).

È prodotta da “non professionisti” in senza lato. Non perché il tesserino da “giornalista professionista” garantisca un’obiettività maggiore (ne conosciamo a tonnellate di cronisti “embedded” pronti a propinare merda riciclata per fini di guerra psicologica!). Ma per un motivo molto più semplice: “scrivere” giornalisticamente significa guardare l’oggetto che cerchiamo di descrivere “dall’esterno”. Anche se siamo parte organizzativa centrale di una manifestazione o di uno sciopero, insomma, nel momento di descrivere cià che accade cerchiamo di non rimanere “dentro” quella logica che produce al massimo un volantino (leggibile solo dai diretti interessatI), ma cerchiamo di “far vedere” ciò che accade in modo che anche un altro “esterno” possa vedere quel che abbiamo visto. 

Quando questo non c’è – perché chi scrive non è presente-ma-esterno all’evento, oppure perché è presente-ma-troppo-interno) – l’informazione diventa creta con cui si può fare qualsiasi cosa. Di più. Di questo tipo di “informazione” siamo sommersi secondo per secondo, senza neanche il tempo di farsi le domande classiche (sarà vero? Sarà falso? Ma chi è che me lo dice? Ecc).

La cosa più tragica è che “il pubblico” è stato abituato a questo andazzo. Non si chiede più molto, nella sua dimensione di stragrande maggioranza. Il dubbio è filosofico, quindi ristretto a un numero risibile (in percentuale, certo) di lettori/fruitori. E’ avvelenato, in senso stretto.

Soprattutto è abituato a testi brevi, assertivi, non problematici, che non (ti) chiedono uno sforzo di partecipazione critica. Soprattutto, assolutamente gratuiti. E questo taglia la testa a qualsiasi toro. Il pubblico “vuole sapere”, ma “non pagare”. È stato abituato così, in rete. Senza nemmeno distinguere tra una prenotazione d’albergo e un saggio sui destini del pianeta (che, siamo costretti a farlo notare, richiedono uno “sforzo produttivo” alquanto differente, e che andrebbero semmai retribuiti almeno in proporzione al tempo di lavoro per produrli). Perciò necessariamente, dovrà essere “di bocca buona”. E al discount dell’informazione-spazzatura troverà certamente quel che basta a soddisfare una così magra curiosità. 

Per questo, oltre che per il cambiamento “genetico” del Pd, l’Unità e cento altri giornali sono destinati alla chiusura definitiva. Per questo, senza proclami ridicoli, gente come noi cerca di fare informazione “strutturata”. Ovvero che restituisca a chi legge l’immagine unitaria del mondo, al di là dei milioni di frammenti di cui sembra – sembra soltanto, sveglia! – composto.

Sapendo che nessuno di noi, da solo o in piccoli gruppi, può riuscire nell’impresa di cambiare la visione del mondo – prima – e il mondo poi.

Quell’Unità di carta non c’è più. La nostra – di testa e di cuore – è tutta da costruire.

 

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