Probabilmente passerà alla storia per l’invenzione di Optì Pobà, fantomatico giocatore africano della Lazio che, prima di sbarcare in Italia, secondo lui «mangiava le banane». Carlo Tavecchio se n’è uscito così, pochi giorni fa, parlando del fatto che le squadre di calcio italiane non investono sui giovani autoctoni, ma preferiscono i giovani stranieri.
Sulla condizione dei settori giovanili del Belpaese si potrebbe anche discutere, ma il discorso di Tavecchio affonda le sue radici nella narrazione razzista che da decenni è stesa sull’Italia come una cappa asfissiante. Il papabile nuovo presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio fa parte di quella generazione che moriva dal ridere davanti a Renzo Arbore che cantava «bongo bongo bongo stare bene solo in Congo». Sarebbe ingiusto prendersela solo con lui visto che, dalle Alpi allo Jonio, non sono pochi quelli che vedono gli africani come misteriosi esseri antropomorfi dalla pelle scura che si cibano solo di banane e saltano di albero in albero nella giungla. Vagli a spiegare che Tarzan era un lord inglese che più bianco non si può.
Poi ci sarebbe anche l’altra dichiarazione incredibile, quella sul calcio femminile. A suo dire ci sono stati tempi in cui era lecito considerare la donna «handicappata rispetto al maschio per resistenza e altri fattori». Poi, però, ha concesso: «abbiamo riscontrato che in realtà sono molto simili». Brividi d’imbarazzo. Pelle d’oca alta due centimetri.
Ma Tavecchio non è solo un gaffeur fatto e finito, se il problema fosse soltanto il suo uso sconsiderato e irresponsabile della lingua italiana, dovremmo ritenerci fortunati. Tavecchio è emanazione diretta di un potere antichissimo che, benché formalmente esaurito, controlla ancora una fetta consistente delle cose italiane. Ragioniere, classe 1943, sindaco democristiano di Ponte Lambro (Como) dal 1976 al 1995, il Tav è un habitué delle poltrone che contano qualcosa. Consulente del ministero dell’Economia prima e di quello della Salute dopo, il nostro uomo è entrato nel giro dirigenziale pallonaro già alla metà degli anni ’70. Nel 1999 è diventato presidente della Lega Nazionale Dilettanti, il vero serbatoio del calcio italiano. All’ombra dei campetti sterrati e delle squadre dal nome spesso anonimo si muove un giro d’affari annuo da un paio di miliardi di euro. E centinaia di società, migliaia di calciatori, il controllo del calcio femminile, del calcio a 5, del beach soccer. Alle elezioni per il presidente della Fgic i dilettanti sono quelli che, in termini assoluti, pesano di più. Averli dalla propria parte vuol dire mettere una seria ipoteca sulla vittoria finale. E Tavecchio, la vittoria finale, ce la dovrebbe avere in tasca, gaffe permettendo. Lo sfidante, l’ex centrocampista del Milan Demetrio Albertini, secondo diverse stime avrebbe appena la metà dei voti.
Tavecchio è un affarista di lungo corso: in serie D ha lanciato la moda dei campi in erba sintetica. Costano 500mila euro ognuno, più 5mila di collaudo. Sono mille le squadre e i comuni, talvolta sommersi dai debiti, che hanno deciso di montarne uno. Della faccenda del collaudo se ne può occupare, in regime di monopolio, una società che si chiama Laborsport, il cui manager si chiama Roberto Armeni. Suo padre, Antonio Armeni, è stato messo da Tavecchio alla presidenza della Commissione impianti in erba sintetica. La puzza di conflitto d’interessi si sente da chilometri di distanza.
Giochi da democristiano navigato, un uomo abituato a sguazzare in un oceano di formalità ineludibili ma controllabili e gestibili, se solo sai come si fa.
la cupola del calcio italiano ha individuato nel ragioniere lombardo l’uomo giusto per rifondare un sistema sull’orlo del tracollo, messo in discussione non per la sua evidente follia, ma per il fallimento della Nazionale ai mondiali brasiliani.
Ma più passano i giorni e più aumentano le gaffe, tanto che, molto in alto, qualcuno sta pensando di commissariare la Figc. Un classico da Seconda Repubblica, questo: se scoppia un casino troppo grosso, si individua una figura presuntamente neutra e lo si manda allo sbaraglio per fare il lavoro sporco. Dai governi di Maastricht a Monti, ne abbiamo viste tante di questo genere. Nell’Italia degli impresentabili siamo riusciti a trovare uno più impresentabile degli altri. Il problema, come al solito, è che chi non vuole Tavecchio non è tanto migliore di lui.
È questione di interessi uguali e contrari, non di etica sportiva. Sul tavolo ci sono diversi miliardi, e pure di questo bisogna tenere conto. La vera novità è che da una logica di spartizione e lottizzazione stiamo passando all’Ok Corral delle trattative, nessuno si accontenta più di spacchettare e dividere il potere tra grandi azionisti politici. Adesso sono i padroni a dirlo: vogliamo tutto e lo vogliamo subito.
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