Il governo ha trovato “la quadra” intorno al Jobs Act, varando un ddl delega che dovrebbe affrontare il vaglio del Parlamento, ma che può diventare un decreto in ogni momento, in modo da evitare lungaggini o “stravolgimenti”. E deve essere ben chiaro che l’unico “stravolgimento” intollerabile sarebbe il mantenimento di qualche istituto di tutela per il lavoratore.
Prima ancora di elencare le singole misure di “riforma”, converrà dare un giudizio organico: questa “riforma del mercato del lavoro” segna una rottura completa con la storia delle relazioni industriali esistenti nel dopoguerra, ovvero dell’Italia repubblicana. Non è una “riforma”, ma una controrivoluzione. L’obiettivo non è infatti “correggere” alcune presunte distorisioni nella normativa giuslavoristica, ma mettere l’azienda al posto di comando sempre e comunque. Se dovessimo tradurla sul piano costituzionale, insomma, dovremmo scrivere “art. 1. l’Italia è una repubblica fondata sull’azienda, che non ha alcuna resposabilità sociale e non può incontrare limiti nella sua attività“.
Andiamo con ordine.
L’art. 4 del ddl presentato dal ministro del lavoro-stile-Coop, Poletti, è stato riscritto con l’ambizione di “valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale”, per disegnare “eventuali interventi di semplificazione delle tipologie contrattuali”. Il governo si dà infatti sei mesi di tempo per elaborare un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, che farà da benchmark per “l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato”. In pratica, una riscrittura completa, organica e univocamente determinata, di tutta la disciplina del lavoro.
Sappiamo che “grazie” al pacchetto Treu e alla legge 30 esistono – oltre all’ormai rarissimo contratto a tempo indeterminato, ben 46 tipologie contrattuali caratterizzate univocamente dalla precarietà assoluta. Può esser questo l’obiettivo della “semplificazione”? Certamente sì, perché anche le aziende hanno difficoltà nel gestire rapporti interni ricadenti sotto normative differenti, cosa che mette in difficoltà gli uffici amministrativi. Quindi “meno diversità” contrattuali è un obiettivo logico, di efficienza minima. Ma anche certamente no, perché – come vedremo – l'”equità” che il governo persegue è quella di rendere tutti egualmente precari, eliminando le residue tutele anche per quanti erano riusciti fin qui a difenderle.
Il dispositivo individuato è il vecchio schema elaborato da Pietro Ichino, pomposamente chiamato “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. In realtà, come si è visto con i primi interventi legislativi in materia di apprendistato e contratti a termine, le “tutele” vengono eliminate del tutto; e solo ad una certa – lunghissima – anzianità di carriera cominceranno ad essere reintrodotte. Ma, sia chiaro, in misura assai più limitata di oggi. Al massimo, verranno “monetizzate” alcune eventuali “discriminazioni” da parte dell’azienda nei confronti del singolo lavoratore.
Il meccanismo delle “tutele crescenti” prevede dunque in partenza zero tutele per i neo assunti. E’ l’abolizione nella pratica dell’art.18, tanto più che il primo contratto a tempo indeterminato può arrivare dopo alcuni anni di “apprendistato” e magari qualche altro di “contratto a termine”, portando così intorno ai dieci anni il periodo di vita lavorativa assolutamente privo di tutele. Un esempio concreto può aiutare: una donna può esser licenziata per il semplice motivo di essere incinta (già oggi migliaia di imprese fanno firmare dimissioni in bianco per impedire tale eventualità), quindi per almeno dieci anni dovrà rinunciare a fare figli. Ci asteniamo dal fare esempi su dipendenti in grado di difendere i propri e altrui diritti come lavoratori, costruendo sindacato, che a questo punto diventeranno bersaglio immediato della revanche aziendale.
Nemmeno l’inquadramento professionale sarà più una tutela. Fino ad oggi, infatti, la maturazione di livelli di avanzamento è stata legata o all’anzianità o “al merito” (a seconda delle categorie e dei contratti nazionali relativi). In pratica, anche quando l’azienda ristruttura, ogni lavoratore deve essere impiegato per le mansioni previste dal suo livello professionale. Ora il governo prevede una “revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita”. In pratica, l’azienda dispone che tu possa esercitare una mansione inferiore – per professionalità, autostima, salario, ecc – e tu “ti contemperi” pur di mantenere il posto di lavoro.
Salta completamente ogni limitazione alla possibilità dell’azienda di spiare ogni singolo dipendente, durante il suo orario di lavoro. Viene stabilita infatti una “revisione della disciplina dei controlli a distanza”, che ammette tutti i dispositivi tecnologici esistenti o ancora da commercializzare. Anche in questo caso l’azienda dovrà “contemperare” la sua esigenza di controllo con “la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore”. Desumiamo che ciò si risolverà nel divieto (o prassi “sconsigliata”) di installare telecamere anche nei servizi igienici…
Al contrario, le aziende dovranno subire meno controlli ispettivi in materia di sicurezza del lavoro e inquinamento ambientale. Si prevede infatti di “semplificare l’attività ispettiva”. Gli strumenti sono ancora incerti (maggiore coordinamento degli organismi esistenti oppure istituzione “di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro”, raggruppando i servizi specifici del ministero del lavoro, dell’Inps e dell’Inail, fino alle Asl e all’Arpa).
Per svuotare completamente anche la contrattazione nazionale, si prevede di introdurre, “eventualmente anche in via sperimentale”, il salario orario minimo. Inizialmente dovrebbe riguardare soprattutto il lavoro subordinato o i co.co.co. impiegati “nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”. Ma non esiste alcun dubbio che, in assenza di risposte conflittuali all’altezza, la disciplina verrà poi estesa anche ai settori oggi “contrattualizzati”. Ovviamente in nome dell'”equità” e della “lotta alle disparità”. O ai “privilegi”.
Altra innovazione, da delineare meglio nei dettagli, è la possibilità di introdurre i “mini job”; ovvero un istituto occupazionale creato 10 anni fa in Germania dal governo Spd di Gerhard Schroeder, conosciuto come Hartz IV, e che prevede di retribuire lavori part time (15 ore settimanali) con 450 euro, esentasse e senza contributi previdenziali (il che significa senza alcun effetto per le future pensioni). L’occupazione tedesca, beatificata come “modello per tutta l’Unione Europea”, è arrivata già oggi a contare ben 7,5 milioni di persone ridotte a questo stadio.
Ma se le aziende hanno libertà di licenziare, cosa avverrà dei lavoratori messi fuori?
La risposta governativa è una presa per i fondelli di dimensioni planetarie. Si parla infatti di “modello danese” (la famosa “flexsecurity”, apprezzata alcuni anni fa anche da certi teorici dell'”Autonomia” generalmente estranei alle dinamiche del lavoro dipendente). Quel sistema per cui alla massima “flessibilità in uscita” (l’azienda è libera di licenziare a piacere) corrisponde una temporanea erogazione di reddito da parte dello Stato, accompagnata da incentivi e sanzioni che spingono alla ricerca di una nuova occupazione.
Il problema – molto poco analizzato in concreto – è che questo sistema di ammortizzatori sociali ha costi molto elevati. La Danimarca vi impegna il 3.6% del suo prodotto interno lordo (Pil), mentre l’Italia fin qui ha speso allo stesso scopo, su strumenti diversi, soltanto l’1,9%. La differenze di spesa annuale – per un paese come l’Italia che produce circa 1.500 miliardi di ricchezza annua – è di 24 miliardi. Vi pare possibile che un governo impegnato a fare 20 miliardi di tagli nella spesa pubblica possa pensare di dedicarne 24 ai sussidi di disoccupazione?
No, evidentemente. Però, intanto, il ddl di Poletti si preoccupa di smantellare gli ammortizzatori sociali esistenti. Resterà soltanto la cassa integrazione ordinaria, quella che copre crisi aziendali temporanee per motivi imprevedibili (alluvioni, incendi, guerre nei mercati di sbocco, ecc). Sparisce la cig straordinaria per chiusura, fallimento e liquidazione coatta; scompare, dal 2017, anche la “mobilità”. Resta solo l’Aspi, una forma di assegno di disoccupazione che copre periodi molto più brevi (da sei mesi ad un anno).
Quindi possiamo concludere senza timore di essere smentiti che i lavoratori licenziati verranno costretti a dormire sotto i ponti. Magari pagando un euro al giorno, come progettato dall’amministrazione comunale di Bologna per i clochard…
Benvenuti a Manchester, 1843.
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