Usare Internet e i social network è presentato come un comportamento vantaggioso per la libertà di ogni individuo. Così come circolare con un telefono, possibilmente munito di gps.
L’utilità anche della connessione universale è molto chiara, a cominciare dalla possibilità di accedere a una montagna di informazioni un tempo spezzettate su supporti diversi (libri, giornali, dischi, pellicole, ecc). E anche poter definire in ogni momento la propria posizione su una mappa può essere questione di vita o di morte, in certi momenti.
Ma non è necessario essere maestri di dialettica per capire che queste libertà hanno un costo decisamente elevato: la possibilità di essere spiati in ogni istante, pedinati, registrati, localizzati. Il cittadino senza interessi politici rilevanti, ma anche molti attivisti che non si pongono la domanda chiave (“la mia attività è gradita oppure no dal mio governo o dal mio datore di lavoro?”), sono soliti fare spallucce profferendo una frase che sembra presa da un manuale di interrogatorio poliziesco: “non ho niente da nascondere”. C’è in questo caso una introiezione dell’”ordine costituito”, per cui l’individuo si ritiene agente nella piena legalità, senza neanche chiedersi se i “custodi ufficiali della legalità” siano quel che dicono di essere o qualcos’altro.
Dal punto di vista strettamente liberale la critica di Edward Snowden (l’ex spia della Nsa che ha reso noto al mondo il Datagate) è definitiva: “quando dici ‘non ho niente da nascondere’ stai dicendo ‘non ho bisogno di questo diritto, quindi mi giustifico’. È il governo che deve giustificare le sue intrusioni, non siamo noi che dobbiamo giustificarci sul perchè abbiamo bisogno del diritto di parola”.
Ma non basta. L’idea che esista una società “normale”, senza conflitti sociali, ovvero senza interessi contrapposti che spingono per il mantenimento o la modifica di questo assetto, è un’invenzione millenaria; peraltro sempre infranta dall’emergere dei conflitti stessi. Fa parte di questa idea la concezione del potere militare dello Stato, compresi ovviamente i suoi servizi di informazione e sicurezza, più o meno segreti, come di una specie di “vigile urbano” che regola il traffico e non ti fa la multa se non lo meriti. Mentre, nella realtà quotidiana, questi servizi sono il braccio – armato per definizione – del potere dominante, incaricato di reprimere quanto possa essere anche marginalmente “pericoloso” per quel potere. Nel caso degli Stati Uniti, peraltro, questi servizi hanno anche la pretesa di controllare l’universo mondo per “difendere gli interessi degli Stati Uniti” (lo dicono apertamente, non è un’attribuzione malevola).
Tu puoi insomma “non avere niente da nascondere”, ma sarà il tuo governo (e quello degli Stati Uniti, a un livello planetario superiore) a decidere se è vero o no, se ut puoi essere un nemico o no; prima ancora che tu abbia già maturato una critica radicale dell’esistente.
I social network sono al tempo stesso un mezzo di comunicazione ultralibero e uno spazio comunicativo ipercontrollato, senza soluzioni di continuità spaziali e temporali. Più sei libero di fare e di “schierarti”, più contribuisci alla costruzione del “Big Data” che contine la tua scheda, la implementa, integra la rete delle tue amicizie, le classifica per tema di interesse comune (tifare la stessa squadra è ovviamete meno interessante del militare nello stesso fronte politico, ma il governo o chi per lui saprà comunque utilizzare – al bisogno – anche quell’informazione “solo sportiva”). Non si tratta di immaginare un “Grande fratello”. Si tratta di vederlo. E di capire come funziona.
Facciamo esempi semplici, così ci capiamo prima. In alcune inchieste giudiziarie, degli attivisti sono stati ritenuti “pericolosi”, in determinate circostanze, perché avevano lasciato a casa i propri smartphone o semplici cellulari. Avevano insomma impedito – volontariamente o involontariamente, non conta – il proprio pedinamento minuto per minuto, la registrazione automatizzata delle proprie conversazioni, la schdattura dei propri contatti in quell’arco di tempo passato fuori casa.
Fermiamoci qui, per ora. Proponendovi un articolo pubblicato su un giornale decisamente filo-governativo e pro-yankee (Repubblica) su come gli Stati Uniti procedono alla schedatura e monitoraggio delle opinioni politiche dei propri cittadini (tutti, tendenzialmente), nonché della loro evoluzione nel tempo.
Troviamo decisamente interessante, sul piano categoriale, la definizione delle “opinioni devianti dalla norma consentita” come inquinamento sociale. Non ci sembra un forzatura dire che il potere – degi Stati Uniti, in questo caso, ma crediamo valga anche per i suoi alleati italiani – considera l’opposizione politica e sociale come un “rifiuto” da estirpare. Grazie alla libertà vigiliatissima garantita dai social network basati negli Usa.
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Twitter, il governo Usa studia le idee politiche degli utenti: quella strana indagine che sa di Grande Fratello
Un membro della Federal Communications Commission statunitense, Ajit Pai, riporta alla luce un progetto accademico in corso da anni finanziato da un’agenzia federale. L’obiettivo? “Individuare l’inquinamento sociale, la disinformazione online e la diffusione di posizioni tendenziose”. Con buona pace di due anni di Datagate
di SIMONE COSIMI
DI POLEMICHE, in questi anni di social rivoluzioni, se ne sono susseguite molte. Una dietro l’altra. L’ultima, giusto lo scorso giugno, ha travolto Facebook: si trattava del famoso studio sul contagio delle emozioni tramite la piattaforma di Menlo Park. Le scuse complete su quell’indagine, in realtà andata in scena anni prima ma venuta alla luce solo l’estate scorsa, sono arrivate a fatica e dopo un po’ di tempo. Anche perché l’utenza, dopo un anno e mezzo di Datagate, sembra farsi progressivamente più cosciente dei rischi che corre condividendo fette sempre più ampie di esistenza su canali che grazie a quei dati fanno ricchi affari. Dati che spesso vengono sottoposti senza troppi problemi all’attenzione delle agenzie di sicurezza. Ecco perché molti studi, magari in corso da tempo, stanno tornando a catalizzare l’attenzione proprio in questi mesi.
Adesso una nuova polemica rischia infatti di travolgere Twitter, il social dell’informazione, delle notizie, dell’attivismo e delle mobilitazioni per eccellenza. E non solo, Twitter, anche altri “social media di microblogging”. La promessa è quella, poco rassicurante e raccontata sul sito ufficiale del progetto, di indagare “l’inquinamento sociale” che circola sulla piattaforma. A formularla però, e a metterla in pratica già da tre anni e fino al prossimo giugno, la National Science Foundation, un’agenzia federale statunitense la cui missione, da statuto, è “promuovere il progresso della scienza, la salute nazionale, la prosperità e il benessere” oltre che “assicurare la difesa nazionale”. Come? Con un sistema attraverso il quale tecnici e ricercatori della Nsf (solo una lettera ne divide l’acronimo dalla famigerata Nsa) campionano, raccolgono e analizzano indisturbati almeno dal 2010-2011 i dati del social dell’uccellino.
Tecnicamente l’indagine, battezzata ormai quattro anni fa ispirandosi a un termine coniato dal comico e presentatore tv Stephen Colbert, “truthy”, è in mano a un gruppo di ricercatori dell’università dell’Indiana. Stando a quanto riferisce il Washington Post e a quello che si legge sul portale del team, punta a monitorare una serie di fenomeni online. Per esempio, ciò che gli esperti chiamano “epidemie sociali”: tanto per cominciare la diffusione di meme, cioè immagini, idee e fotomontaggi che invadono rapidamente piattaforme di questo tipo. Ma anche “insulti politici” e altre forme di “disinformazione”. La base per fondare un servizio antibufale a stelle e strisce? Forse. Ma anche qualcosa di più scivoloso e inquietante.
“Se dici la tua su un tema importante, il governo può avere interesse nel valutare se stai facendo disinformazione?”, è tornato a domandarsi a quattro anni dall’inizio del progetto Ajit Pai, membro della Federal Communications Commission statunitense, sul Washington Post. “Se twitti il tuo supporto per un candidato alle prossime elezioni di novembre, il denaro dei contribuenti dovrebbe essere speso per monitorare i tuoi interventi e valutare la tua posizione politica?”. Domande importanti a cui la stessa commissione di cui fa parte l’esponente repubblicano dovrà presto trovare una risposta. Anzi, è già in ritardo. Soprattutto dopo 24 mesi di terremoto sui temi dei dati personali e del tracciamento online da fonti commerciali o governative.
Lo studio si propone di utilizzare una “sofisticata combinazione di campionamenti di dati e testi, analisi di social network e complessi modelli di rete” per distinguere fra idee che si diffondono in maniera organica e tuttavia spontanea e altre che invece possano apparire in qualche modo telecomandate “dalle losche macchine congressuali”. È infatti necessario ricordare che, nonostante il progetto sia partito da almeno tre anni e sulla sua base siano già stati pubblicati alcuni paper, il 4 novembre si vota negli Stati Uniti per le elezioni di metà mandato.
Psicopolizia online? Presto per dirlo. E forse troppo. Certo l’indagine marcia da anni in una direzione non del tutto chiara, se anche un importante esponente della potente Federal Communications Commission – che pure in passato si era resa protagonista di velleità simili – esce allo scoperto per domandarselo. Non basta. Pare che Truthy tenga traccia anche dell’accoppiata account-hashtag. Vale a dire parole-chiave come #teaparty o #dems sono pescate e associate a chi ha pubblicato interventi che le menzionano, per valutare la parzialità politica degli utenti. Memorizzando le interazioni in un database e assegnando loro un’etichetta, stimando anche il tipo di approccio: se positivo o negativo rispetto ad altri utenti o certi temi di discussione.
Nulla che alcuni servizi di social network analysis già non facciano da tempo, giusto. Ma nel rispetto della privacy e utilizzando dati aggregati. Nel caso dell’indagine governativa Usa, il perimetro – finanziato per quasi un milione di dollari – sembra allargarsi spropositatamente, da anni, da un legittimo interesse scientifico alla messa a punto di un sistema di tracciamento alla luce del sole. A quanto pare senza alcun coinvolgimento diretto da parte di Twitter, che rimane fra l’altro una delle piazze digitali più rispettose delle garanzie degli utenti, stando in particolare alle pagelle rilasciate dalla Electronic Frontier Foundation. Il team di Truthy racconta quasi con candore che lo studio potrebbe essere utilizzato per “mitigare la diffusione di idee false o tendenziose, individuare l’hate speech e la propaganda sovversiva e difendere un dibattito aperto”. Una chiusura, quest’ultima, quantomeno contraddittoria: difendere il dibattito marchiando e segnalando ciò che una mescolanza di algoritmi, segnalazioni e campionamenti valuta come spam? Non occorre disturbare George Orwell né Philip K. Dick per pretendere di saperne, dopo tanti anni, qualcosa di più.
Direzione che sembra voler fermamente imboccare anche l’House Committee on Science, Space and Technology, la commissione della Camera dei rappresentanti che vigila a livello federale sui temi della ricerca scientifica e dello sviluppo. E dunque sulle attività di enti come Nasa, dipartimento dell’energia e, appunto, National science foundation. Le rassicurazioni più volte diffuse da parte dei ricercatori, che hanno dichiarato come Truthy non sia programmato né in grado di determinare se un tweet costituisca disinformazione, non sembrano dunque sufficienti. “Il governo non ha alcun interesse nell’usare i fondi pubblici per supportare meccanismi che limitino la libertà di parola su Twitter e altri social media”, ha dichiarato il repubblicano texano Lamar Smith, a capo del comitato. “La commissione ha recentemente supervisionato una serie di altri finanziamenti piuttosto discutibili della Nsf ma questo appare qualcosa di peggio che un semplice uso scorretto di fondi pubblici”.
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