Piazza San Giovanni era già piena di prima mattina, con quelli che organizzano e chi non ce la fa a camminare. I cortei da Ostiense e Stazione Termini sono partiti in anticipo per evitare un ammassamento eccessivo di persone. Difficile dare numeri, in una situazione del genere, ma si può dire fin d’ora che lo sforzo organizzativo fatto ha prodotto il risultato atteso.
Lo striscione d’apertura è generico quanto basta per non dire contro chi e per che cosa è stata indetta questa manifestazione “Lavoro dignità e uguaglianza. Per cambiare l’Italia”. Un titolo che poteva andar bene nel 1945, nel ’60 e anche nel 2002; che tornerà buono (ma è difficile) anche in un lontano futuro, se le cose dovessero restare così. La gente in piazza naturalmente sa benissimo che questo è un “no” al governo e al jobs act, ma la Cgil non può dirlo. Tanto più nel giorno in cui il suo storico partito di riferimento – quello che per mezzo secolo aveva fatto della Cgil una propria “cinghia di trasmissione” – non esiste praticamente più. La maggioranza salita sul carro del vincitore sta alla Leopolda di Firenze; la minoranza senza speranza né progetti sta in piazza, guardandosi intorno, ricevendo pacche sulle spalle e anche qualche sorriso di compatimento: “vi siete fatti scalare il partito”, grimaldello poi per “scalare il paese”.
Le parole sono naturalmente baldanzose e bellicose, come necessario quando si chiama così tanta gente in piazza: la Cgil è pronta ad utilizzare “tutte le forme necessarie” a sostegno delle proprie richieste, compreso lo sciopero generale, ha detto Camusso nel corso della manifestazione. “Continueremo la nostra iniziativa con tutte le forme necessarie”. Ma quali sono le richieste? Rivolte a chi? Silenzio (oltre il generico “lavoro e occupazione” non si va, il nemico è innominabile).
Gianni Cuperlo e Pippo Civati sono tra i parlamentari Pd presenti al corteo, piazzati dietro lo striscione dei poligrafici de l’Unità (che dovrebbe tornare prima o poi in edicola, ma edito da chi pubblica il catalogo Ikea). Poche e non apprezzate, del resto, le bandiere del Pd. Per capirsi: più di un cartello portava scritto “Fuori da questo corteo i parlamentari Pd che voteranno il Jobs act”.
Loro stessi non sanno come approcciare la contraddizione (“Sto in piazza, ma anche nel Pd e voto la fiducia al governo, anche sul jobs act”). Quanto dichiarano alla stampa è quantomeno imbarazzante. Per Stefano Fassina, deputato ed ex viceministro dell’economia nel governo Letta, «Renzi non ha capito che la piazza non vuole bloccare il governo, vuole solo correggere dei provvedimenti che non vanno, che aggravano la precarietà». «Chi manifesta oggi non lo fa contro il governo, ma contro politiche che sono sbagliate», ha detto sullo stesso tono Pippo Civati. Dove pensano di andare con questa abitudine a nascondere quello che è solare?
Un primo bilancio è dunque possibile. La Cgil ha evitato il rischio che questa fosse l’ultima manifestazione della sua storia, ma è senza alcuna idea praticabile sul come andare avanti. Il tipo di sindacato che ha selezionato il suo attuale quadro dirigente e i funzionari (concertativo, collaborativo, ma anche dotato di un “ruolo politico”, quindi dotato di un potere di veto sulle decisioni governative, anche se esercitato di rado) sarà morto e sepolto il giorno dopo l’approvazione del jobs act.
Un sindacato così, d’altro canto, non ha alcuna possibilità – né intenzione – di trasformarsi nuovamente in un’organizzazione conflittuale. Nemmeno la Fiom di Landini, che battaglia molto ma per tornare esattamente al come eravamo (la concertazione, ecc).
Non ha più una bussola politica, visto che il Pd è il governo contro cui si manifesta (senza poterlo ammettere), e fuori di lì ci sono soltanto soggetti troppo piccoli per essere attendibili. Non che la dimensione, di per sé, sia una garanzia di potenza. Quando mancano idee chiare e progetti forti, quando le condizioni a contorno cambiano radicalmente, ci vuole un attimo (pochi anni, sul piano concreto) perché quella dimensione si polverizzi o si sgonfi. Una considerazione che non sembra abituale tra i beati costruttori di alleanze elettorali…
Banalmente, non c’è una politica possibile per questa Cgil; nemmeno se optasse – ma è impensabile – per trasformarsi essa stessa in un nuovo “partito del lavoro”. Perché dovebbe scegliere se l’Unione Europea è un bene o un male; se si esce da una dittatura oligarchica con un rinnovato protagonismo dei lavoratori reali oppure se tutto si risolve – nella testa, non nella realtà – in un “nuovo compromesso tra i produttori”, in cui è il “soggetto politico” a decidere per nome e per conto dei rappresentati, ma senza ascoltarli mai (com’è stato dai 35 giorni alla Fiat a questa parte; 34 anni, insomma…).
L’unica idea che rimbalza nella testa dei vertici Cgil e della minoranza Pd è di trasformare questa forza di massa in un consenso interno al Pd, tale – per dimensione – da rovesciare i rapporti di forza attuali e sostituire Renzi con qualche personaggio meno “estraneo” al vecchio centrosinistra, facendosi appoggiare poi dall’esterno da Vendola e frattaglie ex comuniste varie. Gigantismo organizzativo e nanismo politico vanno a braccetto, ma a ogni bivio rischiano di cappottare… Non hanno insomma pensato nemmeno per un attimo a capire cosa è successo, perché, quali forze hanno determinato il cambiamento di rapporti di forza e la loro stessa estromissione dalle stanze (fino ad un cero punto, siamo pur sempre l’Italietta inaffidabile per l’Unione Europea) che contano qualcosa. Vorrebbero rientrare in gioco, con le vecchie tattiche degli ultimi 30 anni, mentr quel mondo (e quelle tattiche) non esiste più.
La manifestazione insomma è riuscita, e la Cgil non dovrà sciogliersi domani mattina. Ma non c’è altro…
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angelo
il popolo è cosi, bue o non bue. pensiamo di poterne fare a meno, più umiltà e ricordiamoci l’insegnamento di un grande comunista : un passo avanti ( quando riesce ) e due indietro.