Si chiude con la rissa, ma non si capisce bene su cosa. Il governo fa passare la “legge di stabilità” con la solita fiducia imposta per strozzare il dibattito – tra crepuscolari “assalti alla diligenza” di singoli parlamentari portatori di interessi privatissimi e barricate dei pentastellati su questioni tutto sommato secondarie – in modo che Renzi possa dedicarsi per tempo al più serio ostacolo interno del prossimo mese: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica.
La “manovra” è dunque legge. La Camera, senza neanche la presenza dell’estensore materiale del “maxiemendamento” sostitutivi del testo inziale, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ha approvato il provvedimento in via definitiva, rendendo operativo il ddl uscito dal consiglio dei ministri del 15 ottobre e modificato nell’esame parlamentare.
Come da tradizione, e nonostante la guardia arcigna della Commissione europea, si tratta di un pasticcio che mischia decisioni “obbligate” dalla Troika e misure populiste – in stile democristiano – che fanno finta di concedere con una mano quel che viene tolto con l’altra. Valga come esempio principe il furto con scasso applicato al trattamento di fine rapporto (tfr) contro i lavoratori dipendenti, stabili o precari che siano.
Tra queste ultime, naturalmente, la conferma del bonus da 80 euro che viene reso “strutturale” per la platea inizialmente prevista (lavoratori dipendenti compresi tra gli 8.000 e i 24.000 mila euro di reddito annuo), che viene però svuotata con ricarico dalle misure sul tfr e dal previsto aumento dell’Iva nel prossimo giugno (addirittura dal 22 al 25,5%), quando la Commissione di Bruxelles avrà verificato che questa manovra non rispetta i parametri.
I “Cinque stelle” hanno fatto opposizione dura, ma su punti decisamente di terza fila (la tassazione agevolata – a forrfait – sul gioco d’azzardo, la’umento-monstre del’Iva sui pellet dal 4 al 22%, ecc), probabilmente sperando di poter “mandare sotto” il governo in momenti di minor tensione (tra deputati al buffet o altrove).
E dire che fin lì non avevano fatto le barrricate, né in Commissione bilancio né durante il primo passaggio alla Camera. Stavolta invece sono arrivati ad occupare simbolicamente i seggi del governo per ben tre volte, facendo uscir fuori lo “spirito d’ordine” di Laura Boldrini, che ha espulso a più riprese una quindicina di loro.
Il grossoo della manovra riguarda però una lunga lista di regali alle imprese, nel disperato tentativo di rianimare un modello produttivo – il disgraziato “piccolo è bello” che ha fatto perdere decine di posizione nella classifica degli investimenti e dell’innovazione tecnologica – che ha fatto ormai abbondantemente il suo tempo.
Il governo infatti puntato sin da subito sugli sgravi Irap sul costo del lavoro, cavallo di battaglia del mondo imprenditoriale, travestendole da misure per “favorire” le assunzioni a tempo indeterminato. Una misura specifica è stata pensata anche per le partite Iva, escluse già quest’anno dal bonus da 80 euro.
Tanti, con forte odore di “marchetta”, anche gli interventi microsettoriali nel maxiemendamento presentato a tarda notte in Senato e votato senza nenanche il tempo materiale di leggere il test (la democrazia, si sa, è intangibile se riguarda paesi che vogliamo destabilizzare, mica le faccende di casa nostra). Tra le modifiche “fondamentali” introdotte col blitz notturno spicca quella dei giochi che, insieme ad altri interventi favorevoli a interessi privatissimi e di risibile importanza, ha fatto lievitare la manovre di circa un miliardo.
Ma cosa non si farenne per salvare le vacanze di Natale dei parlamentari…
Ora basterà attendere il giudiziodell’Unione Europea, a fine marzo, con Juncker che però già ha ricordato di esser stato “fin troppo buono” con la monovra presentata dall’Italia.In questa probabilissima eventualità scatteranno le “clausole di salvaguardia” che vanificherebbero il presunto “taglio delle tasse” che ha costituito fin qui il ritornello di ogni ministro.
Nell’attesa, c’è da scegliere il “nuovo arbitro” da mettere al Quirinale. Calano le quotazioni del candidato ideale (Renzie e Berlusconi probabilmente hanno sempre sognato Luciano Moggi), ma il premier ha già fatto sapere che dovrà essere “un garante delle riforme che servono al paese”. Insomma, un altro killer della Costituzione…
Surreale infine l’avvertenza ai suoi oppositori – si fa per dire – interni al Pd, Matteo Renzi ha ricordato che il partito può contare su una base di partenza di 460 grandi elettori, ma ha spronato i suoi parlamentari a non ripetere gli errori che portarono i franchi tiratori a impallinare prima Franco Marini e poi Romano Prodi.
Curiosamente ha dimenticato di ricordare che quei 101 “franchi tiratori” erano esattamente i fedeli di cui disponeva allora…
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