Dopo l’articolo di ieri in cui Repubblica Bologna riportava un’intervista al prof. Orsi (il preside di facoltà che in giornata aveva tentato di vietare lo svolgimento di un’iniziativa in Università contro il revisionismo storico sulle foibe), riportiamo la posizione degli studenti della Campagna “Noi Restiamo” e le parole assai diverse che ha rilasciato il prof. D’Orsi (che di quell’iniziativa è stato magistrale relatore) agli studenti che avevano organizzato la conferenza.
Ci rincresce profondamente constatare che il prof. Orsi, preside della Scuola di Economia, Management e Statistica, abbia frainteso la nostra volontà di creare un dibattito serio e storicamente puntuale su quanto accaduto lungo il confine italo-jugoslavo durante la guerra di Liberazione, scambiando il convegno per una sterile celebrazione del “Giorno del Ricordo”. Ovviamente non era questo il nostro intento, e di certo non volevamo raggirarlo; infatti siamo rimasti stupiti quando ci è stata revocata la concessione dell’aula in cui tenere il suddetto convegno, per di più poiché trattavisi di un approfondimento storico proprio sul merito delle questioni che durante questa data vengono affrontate.
Tale revoca è avvenuta perché “si tratta di una iniziativa di tipo politico per la quale non intendo concedere un’aula universitaria”, come ci ha comunicato il preside della facoltà, lamentando inoltre la mancanza del famigerato contraddittorio, strumento sempre utile per tappare la bocca a chi chiede di avere voce e per screditare convegni ed iniziative (e non ci è stato affatto richiesto di “aprirci almeno al confronto”, cosa che sarebbe comunque avvenuta dopo la revoca).
Guarda caso però, se ne fa uso sempre e soltanto quando qualcuno pretende di andare oltre le versioni ufficiali e le mistificazioni, cercando quella verità che dovrebbe essere ciò a cui ogni ricercatore, studioso o intellettuale di sorta dovrebbe tendere. Mentre Orsi non perde comunque un secondo a ribadire con pericolosa leggerezza che in questi anni la ricerca storica ha “sufficientemente chiarito questi fatti”: cioè? D’altra parte, volendo essere l’iniziativa aperta (per questo la scelta di un’aula universitaria) anche il preside sarebbe potuto venire ad assistere e “a fare il contraddittorio”, anche se gli accademici storici che hanno tenuto l’incontro gli avrebbero spiegato che non bastano certo quattordici anni a completare una ricerca storica, e che certamente questa non può essere conclusa con una legge.
A tal proposito il prof. D’Orsi ci tiene a specificare che “forse sarebbe meglio se gli economisti facessero gli economisti e lasciassero agli storici lo spazio che compete loro, per un reciproco rispetto della deontologia che dovrebbe caratterizzare entrambe le accademie”. E aggiunge: “questa moda di intendere il dibattito storico come tribuna in cui prevedere un contraddittorio, una serata di Porta a Porta in cui a Cernigoi [giornalista e ricercatrice storica, ndr] si opponga magari Parietti, è una visione distorta contro cui gli storici seri si battono da anni. La ricerca storica prevede una sua metodologia, non è il regno della doxa ma dell’episteme, tramite la quale tentare di raggiungere la verità per ciò che è stata”. Più specificatamente “sui fatti intorno alla questione delle foibe non è stato dimostrato assolutamente nulla di nuovo. Si sta solo operando un rovesciamento della verità, una raccolta di fandonie e senso mistificatorio senza fatti concreti che sostengano qualcosa di diverso da ciò che già era noto. Purtroppo mentre in economia, come il prof. Orsi sa bene, la moneta buona scaccia la moneta cattiva, negli ambiti culturali e della ricostruzione storica sta avvenendo il contrario, la moneta cattiva sta cacciando quella buona, e la menzogna sta vincendo sulla realtà”.
Fa specie quindi che sia proprio l’istituzione universitaria a tentare di impedire lo svolgimento di quello che è stato un convegno storico e di approfondimento sulla questione foibe e sull’istituzione del Giorno del Ricordo.
Fa specie che a negare lo spazio per un dibattito pubblico sia quella stessa Università da cui il nostro premier Matteo Renzi ha inaugurato l’anno accademico inneggiando alla libertà d’espressione e ricordando i morti di Charlie Hebdo.
Fa specie che questo avvenga a poca distanza dalla decisione spaventosamente simile assunta alcune settimane fa dal prefetto di Milano, quando il tentativo di boicottaggio e criminalizzazione ha colpito la convocazione di un’assemblea pubblica delle/gli attivist* No Expo.
Sulla giornata del ricordo e sulle foibe si è parlato molto, troppo anzi; e troppo spesso a sproposito, in modo dozzinale ed ideologico, senza documenti, senza portare alla discussione fatti ma solo congetture, ipotesi, opinioni, assurte a verità di stato con la legge n.92 del 30 marzo 2004, quando venne istituita questa ignobile ricorrenza che dimentica colpevolmente i venticinque anni di occupazione italiana e fascista prima, e tedesca e nazista poi, di quelle zone, che dimentica l’italianizzazione forzata, la chiusura delle scuole, il razzismo esplicito verso gli slavi, le violenze, gli abusi, i campi di concentramento, le fucilazioni di massa e le torture.
Si ricordano solo gli italiani. Non importa se fossero gerarchi fascisti, collaborazionisti delle SS, o criminali di guerra.
E quindi ci viene propinata la “memoria condivisa”, ci viene detto che repubblichini e partigiani erano in fondo uguali, che i morti italiani sono morti di tutti, e quindi sono patrioti, anche se erano torturatori di partigiani o stupratori, anche se incendiavano case o fucilavano civili disarmati.
Ebbene, noi ieri abbiamo voluto rivendicare il diritto al dissenso, il diritto a non accettare supinamente una “realtà di stato” che ricostruisce una storia artefatta ed ideologica in cui gli italiani sono sempre “brava gente”, indipendentemente da chi fossero realmente. Non ci piegheremo alla logica della memoria condivisa che mette sullo stesso piano vittime e carnefici, torturati e torturatori, oppressi ed oppressori. Non lo facciamo quando si guarda al passato, e continueremo a non farlo nel rispetto di quei tragici avvenimenti del presente in cui purtroppo la cultura istituzionale persevera nel mantenere un approccio distorto, ipocritamente equidistante e interessato in maniera neanche troppo celata, come nei confronti dell’occupazione dei territori palestinesi e dell’aggressione alla popolazione del Donbass.
Questa logica ha portato allo sdoganamento dei neofascisti di Casapound e Forza Nuova, che sono da anni liberi di organizzare eventi e convegni dai temi più beceri, o possono impunemente propagandare la loro ideologia nelle piazze di Bologna, mandare in coma un compagno a Cremona, ammazzare due senegalesi a Firenze, pestare a morte un ragazzo a Verona, accoltellare, sprangare e compiere ogni sorta di nefandezza. Tanto poi verrà sempre fatto passare (e quindi immagazzinato nella testa delle persone) come “rissa da bar”, “gesto di un folle”. E questo porta a sviare la realtà dei fatti, così come si è riusciti a sviare la realtà storica sulla vicenda delle foibe: non ci sono oppressi ed oppressori ma solo gli “italiani brava gente”.
Per questo la nostra coerenza, stanti l’ipocrisia e la mistificazione attualmente dominanti in ogni faziosità propinata come “super partes” dalle istituzioni, ci obbliga a scegliere una strada partigiana, in direzione contraria a quella di un potere costituito che riesce sempre più a superare a destra le posizioni dei fascisti che tanto bene sguazzano nell’Unione Europea dell’austerità e della lotta di classe dall’alto, e che riesce al contempo a dare loro nuova linfa e nuova legittimità. Con questa stessa determinata posizione continuiamo a contrastare fascismi vecchi e nuovi al fianco di quella parte sana di società che vi si oppone aldilà delle retoriche, e proseguiremo sulla via intrapresa finora, la quale segnerà la sua prossima tappa per le strade di Roma sabato 28 febbraio, quando la calata dei Lanzichenecchi capeggiati da Salvini sarà contrastata da una mobilitazione popolare e di massa nel solco dei migliori valori della resistenza partigiana.
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