Dopo 37 anni, il miglior modo di ricordare la figura del compagno Peppino Impastato, ucciso dalla mafia la notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, con tanto di messinscena di una finto attentato, ci sembra quello di ricordare il depistaggio porganizzato dai carabinieri locali, per allontanare dal boss mafioso locale ogni sospetto. Quel boss si chiamava “don” Gaetano Badalamenti.
Ripubblichiamo perciò qui l’articolo di Salvo Vitale, apparso un anno fa, intitolato “A scurdata”. A seguire la biografia di Peppino, dalla pagina Facebook a lui dedicata.
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Quattro carabinieri indagati per il depistaggio delle indagini su Peppino Impastato
di Salvo Vitale – 20 maggio 2014
In siciliano diciamo, “a scurdata”, quando intendiamo che tutto è stato dimenticato, quando nessuno ci pensava o ci sperava più. Ancor più suggestiva è l’espressione “a la squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si scioglie la brina, si scopre la verità nascosta e non c’è più nulla da fare. Sin dal primo momento e sino ad adesso la famiglia Impastato ha continuato a chiedere che si aprisse un’inchiesta sugli autori del depistaggio delle indagini sulla morte di Peppino, ma sinora, malgrado il minuzioso lavoro di una Commissione Parlamentare d’inchiesta che, nel 2002 accertò che il depistaggio c’era stato e aveva nomi e cognomi, nessun magistrato si è voluto avventurare su questo difficile terreno, principalmente a causa del tempo intercorso e, soprattutto, del muro impenetrabile contro cui si va a sbattere ogni volta che esponenti delle forze dell’ordine o delle istituzioni si trovano ad essere sotto tiro.
Ci avevano provato, qualche anno fa, i giudici Ingroia e Del Bene: era stata passata in rassegna la pista neofascista, con la ricostruzione dei personaggi locali che, negli anni 70 frequentavano l’eversione nera, ma nulla era emerso che potesse giustificarla, se si eccettua, come risulta dalla sentenza del procuratore De Francisci (1992) quanto dichiarato da Angelo Izzo, noto neofascista, il quale ha sostenuto di avere personalmente appreso da Pierluigi Concutelli che ad uccidere Peppino Impastato sarebbero estati elementi dell’estrema destra e, in particolare, un certo Miranda, detto “il Nano”. Concutelli, chiamato a deporre, ha smentito tutto e nessuno si è più preoccupato di rintracciare Miranda per interrogarlo. Adesso, dopo l’abbandono di Ingroia, un altro giudice, Maria Pino, riapre l’indagine soffermandosi sull’operato di quattro carabinieri nel lontano maggio del 1978.
Subranni
Va detto che questi reati, dopo 36 anni, sono ormai in prescrizione ma, a quanto pare, uno degli indagati, il generale Subranni, avrebbe chiesto di rinunciare alla prescrizione, perché vuole essere assolto con formula piena. Chi è Subranni: un militare che ha ricoperto le più alte cariche dello stato, soprattutto quella di generale dei ROS. Negli anni di piombo è stato a Palermo ed è a conoscenza di una serie impressionante di misteri, da quelli della mancata perquisizione al covo di Riina, a quelli della mancata cattura di Provenzano, ai vari passaggi della trattativa stato-mafia, nel cui processo è uno dei principali imputati. Nel 1978 era comandante del Reparto operativo del gruppo Carabinieri di Palermo e, sulla scia dei suoi predecessori, Dalla Chiesa e il Colonnello Russo, aveva la fissazione del terrorismo rosso dovunque vedesse qualche momento di ribellione o di contestazione. Su questa linea d’indagine e operando una forzatura, cercò di far passare l’omicidio di Peppino come un attentato terroristico: naturalmente mancavano alcuni passaggi: come avrebbe potuto Peppino caricare il tritolo, innescare la miccia e saltare per aria, con quale contatto elettrico, e poi, perché?
Canale
Ci pensò un carabiniere ausiliario di Partinico, Carmelo Canale, a perquisire la casa in cui dormiva Peppino, da sua zia, alla stazione di Cinisi: trovò una lettera in cui Peppino esprimeva la sua delusione per il fallimento delle idee politiche rivoluzionarie, che si era verificato nel 1977 ed esprimeva la sua volontà di abbandonare la politica e la vita. Era una lettera d’addio, ma ben datata: cominciava: “Ci sono voluti nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un normale parto, ma ormai la decisione è presa….è cominciata a febbraio…”: quella lettera risaliva quindi al novembre del 1977, mentre Peppino fu ucciso il 9 maggio del ’78. Canale e i suoi superiori non si fecero scrupolo di affidare alla stampa (Giornale di Sicilia 16 maggio 1978) un documento così delicato, facendo dire al giornalista che i pezzi riportati erano stati ricostruiti con l’aiuto dei compagni di Peppino, i quali invece non ne sapevano niente. Il verbale di tale perquisizione non porta la firma della proprietaria dell’immobile, Bartolotta Fara, zia di Peppino. Gli atti processuali parlano di “sequestro informale”. In tal senso la Commissione Antimafia scrive: «È provato che, dopo i “sequestri informali”, cioè senza il rispetto delle formalità di legge, di materiale documentario di proprietà di Giuseppe Impastato, sono stati posti in essere ulteriori accertamenti di cui agli atti processuali non v’è alcun riscontro. La macroscopicità di questa violazione della legge processuale costituisce un’anomalia di intrinseca e indiscutibile gravità. Essa comporta la ideologica falsità degli atti descrittivi delle operazioni di perquisizione e sequestro nei domicili di Giuseppe Impastato, ove venne omesso qualsiasi riferimento a tale documentazione».
Ugualmente strano il mancato sequestro degli appunti autobiografici e della “seconda” lettera di Peppino, copia riveduta e corretta della prima, che pure, a suo tempo, chi scrive questa nota ha trovato facilmente, nello stesso posto in cui era stata sequestrata la prima lettera: forse perché in essa si reiterava l’intenzione di abbandonare la politica, ma non più la vita e sarebbe venuta così meno la pista del suicidio. Sul giornale “Cronaca Vera” comparve un articolo dal titolo “E’ saltato in aria da solo”, corredato dalla foto scattata a Peppino al momento del servizio militare, e quindi negli archivi dell’esercito e con un’altra foto scattata dai carabinieri subito dopo il ritrovamento dei resti. Roba riservata
L’insistenza
Quando ormai, dopo il lavoro dei compagni, le indagini stavano assumendo una nuova direttiva, dopo la scoperta delle macchie di sangue nel casolare, Subranni, in un nuovo rapporto scritto il 31 maggio 1978, riproponeva l’idea dell’attentato Interrogato da Rocco Chinnici fu costretto ad ammettere di avere sbagliato, si giustificò dicendo di avere avuto informazioni sbagliate dai carabinieri di Cinisi. Significativa anche una improvvisa presenza del capitano D’Aleo, della caserma di Monreale, poi anche lui vittima di mafia, che di colpo scomparve dall’indagine: forse non condivideva i metodi di Subranni. Interpellato dalla Commissione Antimafia (1999) Subranni troverà da ridire anche sulla perizia del prof. Del Carpio, (da tempo morto), sostenendo di non averlo voluto accusare di falsa testimonianza, solo per magnanimità. Non si sa con quanta buona intenzione egli inserisce i “due mesi e mezzo di menate sul personale” scritti nella lettera di Peppino, in aggiunta ai “nove mesi” in cui egli “medita di abbandonare la politica e la vita” e non compresi tra di essi: in tal modo il periodo si allunga ad undici mesi e mezzo (febbraio-marzo) e diventa più vicino alla data della morte, rendendo più plausibile l’ipotesi del suicidio. Oggi Canale è diventato Generale, dopo essere stato indagato più volte per mafia, mentre Subranni, cerca di svincolarsi, al processo di Caltanissetta, che lo vede imputato, da tutti i suoi comportamenti equivoci e poco onorevoli da parte di chi avrebbe dovuto rappresentare l’autorità e la dignità dello stato. Secondo Agnese Borsellino, suo marito Paolo gli avrebbe confidato che Subranni era “punciutu”, era cioè di avere visto in lui “il vero volto della mafia”.
Travali e company
All’elenco mancano due nomi, uno dei quali è presumibilmente quello del maresciallo Alfonso Travali, che allora dirigeva la caserma di Cinisi: costui, nel rapporto del 30-5, scrive testualmente: «anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia»: l’utilità di questa precisazione, del tutto inutile e non richiesta, può avere un senso se si tiene conto delle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, il quale testualmente afferma che «la stazione dei carabinieri di Cinisi non li disturbava (si riferisce ai mafiosi), facevano finta di niente perché ci avevano fatto parlare il colonnello Russo. Al colonnello Russo ci avevano parlato i Salvo e Tanino Badalamenti e si comportavano bene». Va anche detto che Badalamenti si era opposto all’eliminazione del colonnello Russo, decisa da Luciano Leggio e che Russo, saputo ciò, avrebbe presumibilmente cercato di sdebitarsi. Anche il pentito Francesco Onorato, in una sua dichiarazione del 31 maggio 1997 afferma che «era risaputo che il Badalamenti avesse nelle mani i Carabinieri del territorio di sua pertinenza”. L’ultimo nome è quello di un carabinier allora in servizio a Cinisi, un certo Meli, che era cognato di Carmelo Canale, così come cognato di Canale era il maresciallo Antonio Lombardo, della caserma di Terrasini, morto in uno strano suicidio (1995), strano tanto quello del giudice Signorino (1992) che, in un primo momento diresse le indagini privilegiando la pista dell’attentato terroristico.
Che dire?
Oggi il figlio di Subranni, Ennio, è membro del ROC, il Reclutamento Operativo Centrale dei nostri servizi segreti, mentre la figlia Danila è stata la principale portavoce di Angelino Alfano, quando era ministro della Giustizia. Ed è proprio la giustizia quella che in Italia ha passi troppo lenti.
Che dire? Per avere il processo ci sono voluti 18 anni, proprio perché non si voleva processare l’operato di coloro che avevano depistato le indagini. Dal 2002, anno di conclusione del processo, ad oggi sono passati altri 12 anni. Capi d’accusa e ipotesi investigative si basano su elementi sempre più deboli e assumono contorni lontani e da cui si rischia di uscire con proscioglimenti e con le solite assoluzioni utili solo a dare una patente di rispettabilità a gente che invece non sempre la merita.
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La biografia di Peppino Impastato
Nasce a Cinisi il 5 gennaio 1948 da Felicia Bartolotta e Luigi Impastato. La famiglia Impastato è bene inserita negli ambienti mafiosi locali: si noti che una sorella di Luigi ha sposato il capomafia Cesare Manzella, considerato uno dei boss che individuarono nei traffici di droga il nuovo terreno di accumulazione di denaro. Frequenta il Liceo Classico di Partinico ed appartiene a quegli anni il suo avvicinamento alla politica, particolarmente al PSIUP, formazione politica nata dopo l’ingresso del PSI nei governi di centro-sinistra. Assieme ad altri giovani fonda un giornale, “L’Idea socialista” che, dopo alcuni numeri, sarà sequestrato: di particolare interesse un servizio di Peppino sulla “Marcia della protesta e della pace” organizzata da Danilo Dolci nel marzo del 1967: il rapporto con Danilo, sia pure episodico, lascia un notevole segno nella formazione politica di Peppino. In una breve nota biografica Peppino scrive: |
“Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. E’ riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione. Creammo un forte nucleo giovanile, fondammo un giornale e un movimento d’opinione, finimmo in tribunale e su tutti i giornali. Lasciai il PSIUP due anni dopo, quando d’autorità fu sciolta la Federazione Giovanile. Erano i tempi della rivoluzione culturale e del “Che”. Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista. Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche e alle prime occupazioni. Poi l’adesione, ancora na volta su un piano più emozionale che politico, alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti, la Lega. Le lotte di Punta Raisi e lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno. E’ stato anche un periodo, delle dispute sul partito e sulla concezione e costruzione del partito: un momento di straordinario e affascinante processo di approfondimento teorico. Alla fine di quell’anno l’adesione ad uno dei due tronconi, quello maggioritario, del PCD’I ml.- il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione ), è stato molto forte. Passavo, con continuità ininterrotta da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano lì a dimostrarlo. Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno, mi racchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava sempre più una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire. Da un mese all’altro, da una settimana all’altra, diventava sempre più difficile riconoscermi. Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire, a riproporre: vivevo in uno stato di incontrollabile schizofrenia. E mi beccai i primi ammonimenti e la prima sospensione dal partito. Fui anche trasferito in un. altro posto a svolgere attività, ma non riuscii a resistere per più di una settimana: mi fu anche proposto di trasferirmi a Palermo, al Cantiere Navale: un pò di vicinanza con la Classe mi avrebbe giovato. Avevano ragione, ma rifiutai.Mi trascinai in seguito, per qualche mese, in preda all’alcool, sino alla primavera del ’72 ( assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche anticipate ). Aderii, con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta del gruppo del “Manifesto”: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali: mi beccai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di delusione e disimpegno: mi trovavo, di fatto, fuori dalla politica. Autunno ’72. Inizia la sua attività il Circolo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo.Mi avvicino a “Lotta Continua” e al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematico che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del “Manifesto” Conosco Mauro Rostagno : è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta Continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di scuola-quadri dell’organizzazione, stringo sempre più o rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzie e sicurezza: comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista. Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si dà luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia disperazione è tiepida. Parto militare: è quel periodo, peraltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni di continuo stato di angoscia e in preda alla più incredibile mania di persecuzione” |
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