Una visione della città per un nuovo modello di società, partendo dal riscatto delle periferie metropolitane. E’ questa l’ambizione su cui ieri l’assemblea della Carovana delle Periferie, anomala esperienza ricompositiva nata a Roma dopo i fatti di Tor Sapienza un anno fa, ha discusso per una intera giornata, con 38 interventi, sul programma con il quale intende andare al confronto con la città e al conflitto con la nuova gerarchia dei poteri forti.
Un programma che, è scritto nel documento, parte “dall’alto e dal basso” cioè da una visione generale e dalle proposte che nascono dai conflitti e dalle vertenze nei territori. “Un programma di rottura e di alternativa che parta dalle periferie, i cui contenuti debbono rappresentare un terreno di intervento indipendente”. Anche qui una anomalia rispetto alle consuete liste della spesa o dei desideri che troppo spesso accompagnano le vigilie delle campagne elettorali come quella che si profila a Roma e in altre città.
Perché una visione anche dall’alto? Perché in questi anni in molti ci hanno detto “voi siete bravi, fate le lotte sociali e nel territorio ma noi siamo la politica cioè la sintesi”. Un meccanismo micidiale questo, che la Carovana delle Periferie intende spezzare affermando che questa volta una visione politica e una sintesi ce la facciamo noi, senza più deleghe in bianco a nessuno. Non a caso l’assemblea e il documento sono partiti dai dati generali imposti dall’accelerazione della situazione, dalle minacce di guerra che incombono sulla generazione nata nel dopoguerra, dalla gerarchizzazione decisionale ed economica imposta dall’Unione Europea che ormai arriva, decide e configura con il Patto di Stabilità e l’obbligo di pareggio di bilancio anche il più piccolo dei municipi. Senza una rottura con questi vincoli dunque, nessuna alternativa o “buona amministrazione” dissonanti dai diktat delle privatizzazioni e dei tagli diventa possibile.
Ma il problema della scarsità o della allocazione delle risorse pone anche un serissimo problema di democrazia. Roma è ormai una città commissariata, perennemente commissariata. Ma la gente come può decidere sulle scelte di indirizzo e le risorse della città? Su questo primo punto del programma la discussione si è presa tutta la mattinata con ben diciotto interventi. Tra le proposte emerse quelle della modifica dello Statuto comunale per assegnare poteri decisivi ai municipi (istituzioni più prossime al territorio), la costruzione dell’organizzazione sociale di massa e di strumenti di “contropotere” attraverso i comitati popolari di controllo che agiscano sul territorio, creando una sorta di istituzioni parallele con capacità di interdizione sulle scelte antipopolari. Inoltre viene indicato l’uso dei referendum a livello regionale e comunale come strumento di battaglia generale, fino a quello dirimente di ottobre prossimo sulle riforme contro-costituzionali di Renzi.
Ma a Roma agisce ormai una contraddizione evidente tra la “città degli abitanti” e la “città vetrina”. A partire dalla questione delle abitazioni che presenta ormai una complessità e una composizione sociale che va molto al di là della solo occupazione delle case sfitte. Le politiche sulla casa hanno azzannato nelle carne anche settori rilevanti di ceto medio e rimettono in discussione anche i diritti acquisiti di chi vive nelle case popolari o degli enti previdenziali. La requisizione dell’invenduto e degli alloggi sfitti resta la proposta che fa la differenza con ogni altra, anche perché ripone la contraddizione tra proprietà privata e utilità pubblica sottolineata anche nella Costituzione. Ma la questione delle abitazioni abbraccia ormai anche la lotta contro il devastante consumo di suolo. Continuare a costruire con milioni di metri cubi (vedi i progetti su Tor Vergata annunciata da Montezemolo) mentre ci sono quasi 250mila alloggi sfitti, vuoti, invenduti, diventa una scelta inaccettabile oltre che insostenibile dal territorio e dai servizi. Ma su Roma da tempo è in corso anche un cambio di passo che vede di “gli abitanti” passare completamente in secondo piano rispetto alla città vetrina messa a disposizione dei “consumatori dinamici” cioè i turisti che arrivano, spendono, consumano e se ne vanno arricchendo solo le multinazionali o il circuito del Vaticano. Poco o niente della risorsa turismo arriva agli abitanti, meno che mai a quelli delle periferie. Ci sono dunque i costi sociali del patrimonio edilizio invenduto e della città vetrina che ricadono sulla “collettività” ma i cui benefici vengono appropriati privatamente. Da qui l’idea di una imposta per le periferie e non sulle periferie per chi guadagna dall’appropriazione privata dei beni pubblici (archeologici, naturali, urbanistici, rifiuti etc.).
Infine la questione del lavoro e delle privatizzazioni strettamente connesse tra loro. Con una contraddizione particolare diventata enorme negli ultimi venti anni e cioè il terzo settore a cui sono stati affidati gran parte dei servizi pubblici e del welfare. Una contraddizione esplosa clamorosamente con il sistema di Mafia capitale ma che ha il suo di origine e di forza in quel “mondo di sopra” rimasto indenne nell’inchiesta e costituito da cooperative cattoliche, della Lega delle Cooperative, banche, fondazioni e dai loro collettori politici. La Commissione Europea da anni insiste sulla totale privatizzazione dei servizi pubblici locali. Sul lavoro “buono”, qualsiasi amministrazione si troverà a fare i conti con i diktat della Troika, anche quando ci sono a disposizione i Fondi Strutturali Europei. L’uso parziale o distorto dei Fse può essere un terreno di scontro e di proposta. La regione Lazio ad esempio non ha fatto “L’Agenda Urbana” prevista dai FSE, escludendo così fondi per le periferie metropolitane come avvenuto in altre regioni e negli altri paesi. “Facciamo noi l’Agenda Urbana” rimettendo al centro il lavoro e i servizi. A partire da una discriminante: basta con il terzo settore e le cooperative, si all’internalizzazione dei servizi. Un Piano metropolitano per il lavoro che parta proprio dalle piante organiche delle aziende municipalizzate e dalle possibilità occupazionali offerte da quanto c’è già sul territorio.
Una discussione di merito , con suggestioni ma tanta concretezza, come non se ne vedevano da troppo tempo. La Carovana delle Periferie prevede di andare ad un confronto pubblico con una assemblea cittadina in gennaio proprio per discutere le proposte emerse, socializzarle, ampliarle ma soprattutto sperimentare la possibilità di diventare organizzazione sociale di massa che rappresenti in modo indipendente le esigenze popolari dentro una città ormai gerarchizzata a tutti i livelli come Roma.
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