Le banche sono al centro del sistema finanziario, quindi al centro del capitalismo contemporaneo. Molto più che non la produzione di merci fisiche o “immateriali”, che producono sì profitti ma in misura percentualmente più limitata e soprattutto con tempi di rotazione (dal momento dell’investimento a quelli del “rientro” in seguito alle vendite) infinitamente più lunghi.
Logico dunque che sulla banche si giochi molto. Sia a livello di Unione Europea che di governi nazionali. E che ogni schermaglia investa direttamente non solo gli istituti di credito di qualsiasi grandeza, ma anche chi della banca è solo cliente, magari piccolissimo e costretto a quel ruolo per poter incassare stipendio o pensione.
Logico anche, di conseguenza, che proprio sulle banche il governo Renzi abbia finito per pestare una materia nauseabonda di cui non riesce a sbarazzarsi. Tantomeno ricorrendo alle solite chiacchiere cui in due anni ha abituato il pubblico televisivo.
Con un solo decreto è infatti riuscito a mettersi contro i “risparmiatori” (categoria interclassista per definizione, perché prende in considerazione soltanto la titolarità di un conto corrente o altri beni mobili), la Banca d’Italia, l’Unione Europea (o almeno alcuni dei commissari coinbolti, comeMargrethe Vestager e Christopher Hill, addetti rispettivamente alla “concorrenza” e alla “stabilità finanziaria”). Peggio ancora. Possedendo una cultura gestionale del potere fondata sull’”andiamo avanti comunque” e sul rilancio, sembra orientato ad alazare il livello di scontro con qtutti i soggetti interesati alla vicenda.
Le notizie escono fuori un po’ alla volta, com quando si “spizzicano” le carte in una mano di poker. Per i risparmiatori truffati dalle quattro banche fallite non ci sono molte speranze. Il meccanismo dell’”arbitrato” prova a divederli fino all’individualizzazione; la nomina di Raffaele Cantone alla bisogna dovrebbe servire anche a intimidire i ricorrenti; il fondo di solidarietà di appena 100 milioni può comunque garantire solo un quarto delle perdite fin qui accertate.
La Banca d’Italia è sul piede di guerra, sia pure nelle sue forme british e nel rispetto severo delle competenze altrui. Ma non s’era mai visto un Governatore costretto ad andare in uno dei talk show più governativi – quello di Fabio Fazio – per difendere l’istituzione che dirige. Del resto, non si era mai nemmeno vista la decisione di sottrarre alla Banca d’Italia una delle sue competenze fondamentali per affidarla a un’autorità pensata per tutt’altro (l’anti-corruzione) e a una commissione parlamentare d’inchiesta. Anzi, un precedente c’è, ma è letale per Renzi: il caso Sindona, che vide l’intervento diretto di Andreotti, Stammati, Evangelisti.
Le ultime sortite dell’attore fiorentino segnano l’ennesima escalation: la commissione parlamentare dovrebbe occuparsi del sistema bancario risalendo addirittura a 15-20 fa. Un modo di “buttarla in caciara”, perché in un terreno così vasto e in presenza di legami fortissimi tra buona parte dei parlamentari e diversi istituti di credito quella commissione finirebbe per smarrire il filo conduttore. In pratica, per annegare qualsiasi domanda urgente su un caso specifico – le quattro banche appena “salvate”, cominciando da Banca Etruria – in un oceano di “indiscrezioni”, “rivelazioni”, “misteri”, scoop veri e soprattutto falsi, fughe all’estero, cadute dalle finestre (è appena successo, con un dirigente di Monte Paschi), minacce incrociate, ecc.
Non è finita. L’apertura di uno scontro con l’Unione Europea è una mossa “populista” facile da pensare (è facilmente dimostrabile che il “decreto” sia stato sostanzialmente modificato – in peggio per i risparmiatori – dall’intervento dei Commissari di Bruxelles, e lo stesso governo sembra sul punto di pubblicare in carteggio istituzionale che avrebbe dovuto restare “riservato”), ma difficile da tenere a lungo senza conseguenze.
Tanto più se questo scontro ha come origine un volgare tentativo di sbrogliare “all’italiana” problemi bancario/familiari, esacerbati da interessi di poche famiglie toscane fortemente “collegate” tra loro e presenti, con ruoli pesanti, nel governo in carica.
L’anno appena trascorso dimostra a iosa che per “opporsi” alla Ue e alla Troika non basta neppure nutrire velleità “riformiste” sostenute massicciamente da una maggioranza popolare. Figuriamoci cosa potrebbe rovesciarsi sulla testa di un esecutivo in debito d’ossigeno sul piano del consenso interno e con le idee molto confuse – e dilettantesche – su come uscire da questo impiccio.
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