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Questo non è un paese per esseri umani

Di nuovo alle prese con la demografia, che non concede sconti. I dati del demografo Gian Carlo Blangiardo, docente alla Bicocca di Milano, illustrati un un articolo su l’Avvenire, non lasciano alcuno spazio alle cazzate ottimistiche, siano queste sparate da un prestanome installato a Palazzo Chigi o da altri fedelissimi servi.

Il dato complessivo è secco: nel 2015 la popolazione italiana è calata di 150.000 unità. Che si sommano alle -94.000 del 2014. Il confronto storico è anche peggiore: una caduta del genere è stata registrata soltanto nel 1917, quando si sono “felicemente” sommati gli effetti della Grande Guerra e quelli dell’epidemia influenzale chiamata “Spagnola”. L’unica nota positiva – ma l’impressione dura solo un attimo – è che un secolo fa le nascite erano proporzionalmente molto maggiori di ora (su una popolazione complessiva minore) e tendevano quindi a “limitare” gli effetti stragisti di guerra e epidemia.

Le cause dell’atuale, drastico, calo demografico sono molteplici, alcune “oggettive”, altre frutto di scelte politiche criminali (da parte dell’Unione Europea e del suo terminale italiano).

L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno comune a tutte le economie sviluppate. La natalità crolla perché cambiano sia le abitudini di vita che le pratiche di “trasmissione genetica”. Di fatto, con una mortalità infatile molto più bassa (il progresso scientifico e la sanità pubblica sono un’ottima cosa, finché vengono finanziati), non c’è più alcuna necessità di mettere al mondo un numero sconfinato di figli per famiglia nella speranza che qualcuno sopravviva (una “legge etologica”, in qualche misura).

A peggiorare la velocità del calo tendenziale di una popolazione mediamente più anziana sono però arrivati i tagli alla sanità, l’aumento dei ticket, l’elevazione dell’età pensionabile e il congelamento – nel migliore dei casi – degli assegni pensionistici. Ce ne eravamo già occupati un mese fa (https://contropiano.org/articoli/item/34448), quando arrivarono i dati Istat a certificare che nel 2015 si sarebbe registrati 68.000 morti in più rispetto all’anno precedente. Anche in quel caso, una differenziale che non si registrava dagli anni della seconda guerra mondiale.

Questo calo (in parte fisiologico, in parte provocato da una governance stragista) era stato fin qui compensato da flussi migratori intensi. Che da un lato avevano rimpolpato le statistiche, dall’altra avevano indirettamente contribuito al calo del potere contrattuale dei lavoratori (conseguenza oggettiva dell’aumento dell’”esercito salariale di riserva”), fornendo addirittura una possibile base di massa per fascisti, razzisti, suprematisti e imbecilli vari.

Questi flussi si sono drasticamente ridotti anch’essi. I migranti sbarcano ancora a frotte dai barconi, ma checché ne dica Salvini o Gasparri non intendono minimamente fermarsi qui, se non in percentuali calanti, perché se uno deve rischiare la vita per avere una vita punta certamente verso un paese dove si possa trovare una sistemazione decente (lavoro, politiche di integrazione, ecc).

Infine è ripartita l’emigrazione italiana, soprattutto giovanile e qualificata, anch’essa diretta verso i paesi del Grande Nord, che offrono opportunità che qui vanno invece sparendo. Si calcolano almeno 100.000 persone nel 2014, in aumento (non quantificabile, per ora) nel 2015. Una “fuga dei cervelli” che annienta la possibilità stessa che questo paese possa avere un futuro di sviluppo (non solo o non tanto economico) e contemporaneamente “costa” moltissimo alle finanze statali. Gli economisti stimano infatti che, dalle elementari alla laurea, l’istruzione pubblica spenda circa 100.000 euro a testa, solo in parte compensato dall’aumento vertiginoso delle rette, dai tagli e dal blocco degli stipendi del personale. Considerazione, ovviamente, che spinge i governanti a tagliare ulteriormente la spesa per istruzione, pensione e sanità, oltre che per le politiche di accoglienza, peggiorando così drasticamente una dinamica mortale.

C’è da dire, infine, che questa dinamica non potrà essere invertita da un’impossibile aumento della natalità, ovvero del numero dei figli per donna. Le ragioni per cui nella modernità si fanno meno figli, infatti, non sono solo “culturali” o egoistiche (conoscenze più diffuse e sensate sui metodi contraccettivi, “più tempo per sé”, “maggiore libertà” e argomenti similari), ma soprattutto economiche. Un figlio, in una società complessa e fortemente informatizzata, è in primo luogo un costo. Cento anni fa si dovena solo aggiungere un posto a tavola e un po’ d’acqua in più nel minestrone  con cui si nutriva una famiglia povera, ma da lì a pochi anni c’era due braccia in più per svolgere i massacranti lavori della sopravvivenza in povertà. Oggi ci sono infiniti passaggi (dai pannolini alle tasse scolastiche, dalle cure mediche alla dotazione minima di giochi, computer, ecc) che comportano spese esponenazoali fino e (molto) oltre la maggiore età.

Il prof. Blangiardo non manca di notare come – statisticamente parlando – una dinamica così negativa della popolazione possa essere ritrovata soltanto negli anni delle due guerre mondiali. Vi rimandiamo ai suoi calcoli, per chi vuole approfondire (http://www.neodemos.info/abbiamo-avuto-150-mila-invitati-in-meno-al-banchetto-di-capodanno/).

Per chiudere vorremmo solo proporvi di rispondere a una domanda:

se queste sono cifre da guerra, significa che c’è una guerra in corso, per quanto non dichiarata; ma dato che non vediamo “i nostri ragazzi” partire per il fronte a milioni, e neanche siano – fortunatamente e per ora – falcidiati da epidemie incontrollabili,

chi è il nemico contro cui i “nostri” governanti hanno scatenato la guerra?

Guardatevi allo specchio per trovare un indizio…

 

 

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