Compulsare il Rapporto Annuale dell’Istat richiede tempo, possibilità di riflettere e verificare – se non i dati – parecchie “sintesi” che appaiono inevitabilmente più politiche che statistiche.
Un esempio? Là dove si certifica che il sistema di protezione sociale italiano è “uno dei meno efficaci d’Europa” (ed è sicuramente vero; dietro di noi c’è solo la Grecia massacrata dalla Troika) una manina ha apposto una spiegazione decisamente arbitraria e discutibile: “la spesa pensionistica comprime il resto dei trasferimenti sociali”. Di tutta la spesa pubblica nazionale, insomma, soltanto quella pensionistica – evidentemente considerata “eccessiva” dall’anonimo estensore – sarebbe reponsabile delle deficienze di portezione sociale più generale. Come se alla protezione sociale fosse attribuito per legge divina un coefficiente fisso da spalmare differentemente, a seconda delle opzioni in campo, ma senza toccare le altre voci di spesa (interessi sul debito, militare, le infinite polizie, ecc) né, tantomento, accennare alle mancate entrate (evasione ed elusione fiscale, contributiva, ecc).
Detto questo, e dovendo stendere comunque un “pezzo” in tempi rapidi, ogni giornale sceglie un capitolo a caso e propone la sua lettura alquanto unilaterale di un “librone” da meditare con calma. Noi ve proponiamo in allegato, così potete farvene un’idea più articolata.
Tra le cose notevoli, a una prima impressione, c’è certamente il mercato del lavoro, che nei primi tre mesi 2016 mostra una sostanziale stabilità degli occupati. Nessuna “creazione di nuovi posti di lavoro”, insomma, come incessantemente ripetuto dalla propaganda governativa.
E questo nonostante il dato – drogato – del 2015, che ha reso il contratto a “tempo indeterminato a tutele crescenti” (ma sei licenziabile in qualsiasi momento, anche senza giusta causa; come un precario, dunque). A conferma, c’è il fatto che l’incidenza del “lavoro standard” sul totale degli occupati è scesa ancora (73,4%), raggiungendo i minimi dal 2008 (quando era al 77%). Di un miliione e 300.000 occupati si è persa definitivamente traccia.
Soprattutto colpisce il numero delle famiglie – famiglie intere, non singoli individui – senza lavoro: 2,2 milioni, il 14,2% del totale (erano il 9,4%, nel 2004), ma nel Sud diventano un quarto del totale (24,5%). Un dato mostruoso soprattutto perché riguarda famiglie giovani, che nello stesso periodo di tempo (dieci anni) sono passate dal 6,7 al 13%. E questo senza che le famiglie anziane ne traessero – come sostiene spesso la propaganda governativa e liberista – alcun vantaggio. Anzi, anche le famiglie anziane jobless sono aumentate dal 12,7 al 15,1%.
Seppellito a forza di numeri e povertà ogni possibile conflitto generazionale, l’Istat ha registrato che ormai ad andare in pensione “di anzianità” contributiva sono quasi soltanto lavoratori con più di 40 anni di carriera sulle spalle. In dieci anni pieni di “riforme pensionistiche” sono cresciuti dal 7,6 al 28,8% del totale.
E del resto l’età effettiva del pensionamento è passata in media dai 62,8 ai 63,5 anni, in costante innalzamento.
Chissà perché, “le nuove generazioni di anziani sono diverse da quelle del secolo scorso ma anche dalle generazioni di cinquant’anni fa. L’aumento dei livelli di istruzione e di benessere economico, stili di vita via via più salutari, prevenzione e progressi in campo medico hanno migliorato le condizioni di vita della popolazione anziana, con guadagni consistenti non solo nella vita media, ma anche nella qualità della sopravvivenza”.
Diciamo che le conquiste ottenute dalla fine degli anni ’60 e in tutti gli anni ’70, hanno prodotto non solo un sistema sanitario e di welfare molto migliori, ma – con la diffusione dell’istruzione di massa – si è permesso l’accesso all’informazione “scientificamente avvertita”, che consente di districarsi con qualche probabilità di successo nell’oceano della pubblicità ingannevole. Tutte cose che ora sono state già tolte o sono in via di smantellamento…
Perciò i nati dal 1946 al 1965 sono arrivati alla soglia dell’età anziana in condizioni di salute decisamente migliori rispetto alle precedenti, con quote più basse sia di persone affette da limitazioni funzionali, sia di chi dichiara di stare male. Lo star bene di salute, e ancor più gli elevati tassi d’istruzione delle generazioni che man mano passano nella fase anziana della vita, favoriscono l’invecchiamento attivo, cioè non solo la capacità di essere fisicamente attivi o di partecipare alla forza lavoro, ma anche di partecipare alla vita sociale, economica, culturale e civile.
Un’efficienza che, per esempio, consente ai loro figli di utilizzarli come baby sitter per i nipotini, risparmando sui costi di gestione. O anche per una integrazione dei redditi da lavoro, disperantemente più bassi rispetto alla generazione precedente.
Bassi redditi per i giovani significa automaticamente minori nascite, dunque diminuzione e invecchiamento della popolazione. Al 1 gennaio 2016 la stima è di 60,7 milioni di residenti(-139 mila sull’anno precedente) mentre gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Il nostro Paese è tra i più invecchiati al mondo, insieme a Giappone e Germania.
Nel desolante quadro demografico si inserisce il nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia per le nascite: nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno rispetto al 2014. Per il quinto anno consecutivo diminuisce la fecondità, solo 1,35 i figli per donna. Siamo dunque sideralmente lontani dal periodo del baby boom (dal 1946 al 1965, appunto), quando il numero medio di figli per donna era praticamente dopio: 2,7.
Dagli anni 2000 la popolazione cresce in modo più sostenuto solo grazie ai flussi migratori dall’estero. Al primo gennaio 2016 i cittadini italiani residenti sono 55,6 milioni, i cittadini stranieri 5,54 milioni (8,3% della popolazione totale). Non è un’invasione in un territorio sovrappopolato, ma una “sostituzione” appena sufficiente a non far crollare la struttura produttiva e reddituale del paese.
Quei coglioni che dicono “prima gli italiani” – o, come su qualche manifesto elettorale in questi giorni, “prima i romani” – semplicemente non sanno in che paese vivono.
Il Rapporto Annuale completo, diviso nei cinque capitoli:
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