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Ticino. Cosa ci dice il referendum “prima i nostri”

Il risultato del voto sull’iniziativa popolare “Prima i nostri” non è altro che l’ennesimo segnale di un clima politico preoccupante, che non riguarda purtroppo il solo Ticino, bensì  si inscrive in una tendenza che trova terreno fertile in tutta Europa. Ovviamente, questo orientamento è declinato in maniera differente e su varie istanze, a dipendenza delle varie regioni e delle criticità date da fattori locali. Questa precisazione non è un tentativo di difendere, giustificare, l’opinione dei cittadini ticinesi, tuttavia desideriamo far meglio comprendere a chi non vive o lavora in questo cantone la portata di quanto si sta analizzando. In uno sforzo di trasposizione,possiamo affermare che lo stesso tipo di politica che ha portato la maggioranza dei ticinesi ad approvare questa iniziativa è quella che trova riscontro nella figura e nel successo di Salvini in Italia.

L’iniziativa in questione la si può pensare come un modo in salsa ticinese per ribadire quanto si è già approvato a livello confederale il 9 febbraio 2014, attraverso un’altra iniziativa dal nome fragoroso e inequivocabilmente xenofobo, il quale dà chiaramente l’idea di quanto in Svizzera si cerchi di cavalcare posizioni di pancia e creare disagio e al limite odio nei riguardi di chi proviene dall’estero: “Stop all’immigrazione di massa”.

In Svizzera, ma soprattutto in Ticino, per questioni utili unicamente al profitto  di padroni e capitale, alcuni impieghi sono occupati da lavoratori frontalieri oppure da lavoratori con esperienza e diplomi maturati all’estero. Questo perché in molti settori economici i margini di sfruttamento sono molto ampi e consapevolmente coloro che vogliono trarre maggior profitto sulle spalle dei lavoratori propongono salari che un residente non può accettare in quanto semplicemente non riuscirebbe a far quadrare i conti a fine mese. Oppure aggirano l’obbligo di riconoscere la formazione e l’esperienza poiché conseguite all’estero, in modo tale da avere quindi  accesso a manodopera, se non qualificata, almeno esperta del mestiere, abbattendo di parecchio il suo costo.

Il sentimento di concorrenza tra lavoratori e il conseguente timore verso una crescente disoccupazione, sia per sé stessi  che per i propri figli sono cresciuti in maniera esponenziale dal momento che anche nel settore terziario o negli impieghi più ambiti è stata messa in atto questa dinamica.

In un contesto in cui esistono poche tutele dei diritti dei lavoratori, in cui si può licenziare senza giusta causa (in Svizzera non è mai esistito nulla di simile allo Statuto dei lavoratori italiano), in cui i salari, negli ultimi dieci/vent’anni, non hanno visto una crescita degna di nota e in linea con l’opulenza elvetica, ma in cui le spese aumentano di anno in anno (ad esempio affitti in crescita e assicurazione malattia privata e obbligatoria sempre più costosa) e un wellfare pressoché inesistente, per ovvia conseguenza la preoccupazione cresce, come l’incertezza per il futuro. Il problema, dal nostro punto di vista, sorge però dal momento in cui, al posto di puntare il dito verso chi cavalca questa situazione per trarne profitto, si è cominciato a guardare con sospetto il collega di lavoro o chi viene dall’estero con l’unica speranza di poter arrivare a fine mese con meno patemi d’animo, accettando al contempo una vita di sacrifici, fatta di orari impossibili e viaggi interminabili. Al posto di unirsi, organizzarsi e lottare per i diritti di tutti nella maggior parte dei casi la classe lavoratrice ha individuato la minaccia nei lavoratori provenienti dall’estero. La vecchia dinamica dividi et impera tanto cara a capitale e padronato ancora una volta ha colto nel segno, distogliendo l’attenzione da ciò ce davvero è importante e creando una guerra fratricida che non lascia superstiti.

Questa iniziativa, se mai esisteranno basi legali con cui applicarla, nel concreto non porterà sicuramente beneficio ai lavoratori residenti in Ticino, in quanto nessuno dei promotori dell’iniziativa ha mai parlato di diritti, di salari minimi, di protezione contro il licenziamento, di adeguati orari di lavoro. Non a caso parte del comitato promotore era composta da imprenditori e già questo da solo, in un mondo ideale in cui si vota ragionevolmente e non solo di pancia, avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme.

Le stesse aree politiche che hanno promosso quest’iniziativa si sono ben guardate dal promuovere altre iniziative in votazione, sia precedentemente, come l’introduzione di un salario minimo, la difesa delle pensioni, l’aumento delle settimane di vacanza, la cassa malati unica e pubblica, ma hanno addirittura affossato l’iniziativa contro il dumping salariale, vero cancro moderno della classe lavoratrice ticinese, votata al contempo di “Prima i nostri”

Sempre a proposito di chi ha promosso l’iniziativa in questione, nessuno di loro, ad esempio, ha espresso la benché minima contrarietà  di fronte alle proposte di riduzioni di salari o aumento di ore di lavoro gratuito promosse dal padronato industriale all’inizio del 2015, quando con la scusa del franco forte, si è cercato di mettere in atto una strategia volta unicamente alla crescita del profitto del settore.  Anzi, chi di loro si è espresso, l’ha fatto unicamente in difesa di chi ha proposto un peggioramento delle condizioni di lavoro e accusando il sindacato e gli operai che con esso si erano mobilitati contro queste manovre.

Oppure nessuno di loro si è mai indignato a fronte della riduzione della manodopera impiegata nel settore dell’edilizia malgrado l’aumento del volume di lavoro, che ha portato alla conseguente crescita della pressione sugli operai, che si sono ritrovati a lavorare nella condizione già da inizio cantiere si è in ritardo rispetto ai termini di consegna, con un calendario che prevede fino a 9 ore e mezza al giorno nei mesi meno freddi.

Di esempi simili ce ne sarebbero molti altri, ma crediamo che la situazione sia già sufficientemente chiara. Inoltre, questo tipo di pressioni risultano essere molto più quando si ha di fronte una persona che, se dovesse perdere il lavoro, non avrebbe diritto a una disoccupazione decente oppure nei confronti di chi per anni ha dovuto arrangiarsi con una situazione precaria o di assenza di reddito prima di trovare un posto di lavoro in Svizzera.

Urge, in Ticino, in Svizzera, come nel resto dei Paesi europei, trovare la soluzione per riportare la discussione sulla radice delle problematiche,  riuscire a fare i passi necessari per fare in modo che meglio si comprenda chi effettivamente è il nemico della classe lavoratrice, per combattere quelle che sono le speculazioni di pochi per i profitti di pochi, scaricate completamente sulle spalle di chi ha il timore di non sapere come arrivare a fine mese o di non trovare il mezzo di assicurarsi una forma di reddito qualsiasi. Perché oggi ci vogliono dividere tra lavoratori residenti e frontalieri, ma altre divisioni create dalle loro discriminazioni sono già presenti: tra lavoratori e lavoratrici che per la stessa mansione ricevono un salario inferiore, tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e l’interinale, tra l’occupato a tempo pieno e il sottoccupato, tra chi ha un diploma e chi non ce l’ha.

Lo si deve fare, anche con una visione internazionalista, perché comprendiamo bene l’indignazione di chi ha appreso l’esito del voto dall’estero, che è la nostra stessa rabbia e delusione, ma non bisogna scordarsi del fatto che le stesse dinamiche si stanno propagando nel resto d’Europa e la soluzione può essere solo quella di uno scambio, una costruzione politica che si opponga a questo clima e che sia condivisa in più territori.

In Ticino si potrebbe cominciare, ricordando, cosa è stato lo “Statuto dello Stagionale” in vigore fino a qualche decina di anni fa in Svizzera,  che imponeva condizioni di vita pessime per i lavoratori stranieri,  subito anche da una parte di cittadini  che  oggi sostiene l’iniziativa “Prima i nostri”.

 Semplicemente, bisogna tornare a ragionare unicamente negli interessi della nostra classe.

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