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Bufale, post-verità, disinformazione, regimi

Viviamo in un mondo libero, ma alziamo appena un sopracciglio di fastidio – o forse neanche quello – quando Erdogan chiude l'accesso ai sociale network dopo un attentato dei suoi ex alleati dell'Isis, oppure chiude i giornali dell'opposizione (senza star troppo a distinguere tra kemalisti, gulenisti e curdi), manda la polizia nelle redazioni ad arrestare i giornalisti e infine impone il monopolio delle informazioni nelle sue mani.

Viviamo in un mondo libero, informati da centinaia di migliaia di fonti diverse, ma quelle "autorevoli" sono sempre meno. In compenso si fanno largo quelle "autoritarie", fondate sulla censura totale di qualsiasi forma di resistenza; a meno che non si possa darne una lettura criminalizzante (come accade da decenni col movimento No Tav o anche per ogni tipo di manifestazione o sciopero, di cui non si descrive più nulla – ragioni, obiettivi, sofferenze, ecc – ma solo il "rischio di disordini" oppure di "paralisi del traffico").

Viviamo in un mondo libero, ma la libertà di informare viene ogni giorno messa in discussione in termini più perentori. Con la scusa delle "bufale" naturalmente. Che sono tante, oscene, insopportabili, difficilmente combattibili quanto più viene scientemente creata – dai governi dei paesi "democratici", in special modo – l'ignoranza di massa, a partire dalla distruzione della scuola e delle università pubbliche. Senza strumenti critici, anche di livello elementare, una diceria o una "bufala" sembrano credibili quanto una notizia vera. E un notiziario "vero", ripetuto sempre uguale su tutte le reti televisive, ci racconta cazzate senza fondamento. Specie se si parla di guerra. Di guerre in cui i governi che ci "riformano" sono impegnati senza averci chiesto alcun consenso. E anche qui, come in Turchia, autorevoli autoritari (il capo dell'Antitrust – che dovrebbe paradossalmente difendere la "libera concorrenza" – e la presidente della Camera, incomprensibilmente considerata un esponente della "sinistra") si sbracciano nel proporre il bavaglio alla Rete, ai social netwrk (ossia agli strumenti che meglio consentono la schedatura centralizzata delle opinioni dei cittadini, mettendole a disposizione di polizie e direttori del personale delle imprese).

Viviamo in un mondo così libero che lo sguardo critico sull'informazione mainstream arriva solo a tratti, quasi per caso.

Un esempio di come funziona l'informazione nel 2017? Ecco l'anali critica di Fulvio Scaglione, vicedirettore dell'Avvenire (non de Il Bolscevico), pubblicata nel suo blog su Micromega.

A seguire, un'intuizione di un altro giornalista senza legami fissi con una testata, sul nesso che lega informazione di regime e sparizione dei fondamenti della democrazia parlamentare liberale. Borghese, insomma…

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Mosul e Aleppo. Attenti alla propaganda

Fulvio Scaglione

Ci avete fatto caso? Ora che potrebbero parlare liberamente, raccontare a tutti i giornali e alle Tv che cos’hanno visto e subito ad Aleppo, sono spariti tutti. Clown, pediatri, ragazze disposte a suicidarsi piuttosto che vivere sotto Assad, elmetti di ogni colore, attivisti fino a qualche giorno fa impegnati a rifornire le Ong di notizie terribili, mamme disperate. Solo la bambina che twittava sotto le bombe è rispuntata per recarsi in Turchia a prendere un premio da Recep Erdogan (lui sì, un modello di umanità). E ha potuto farlo proprio perché ribelli e jihadisti hanno infine sgombrato i quartieri di Aleppo Est.

“Così va spesso il mondo” scriveva Alessandro Manzoni a proposito di quella che, nei Promessi Sposi, viene definita “la notte degli imbrogli e dei sotterfugi”. Però la lezione di Aleppo va tenuta ben presente perché sulla devastata città della Siria si è giocata una partita di propaganda che va ben oltre la già drammatica situazione particolare.

Nei quartieri per anni occupati da ribelli e jihadisti stanno saltando fuori le solite fosse comuni piene di corpi di civili, torturati prima di essere ammazzati. Dico le “solite” perché il rito atroce si è ripetuto ovunque l’Isis abbia dovuto cedere terreno. Nell’estate scorsa l’Associated Press, studiando immagini satellitari e confrontandole con testimonianze raccolte sul campo, è riuscita a localizzare 72 fosse comuni in zone appena abbandonate dall’Isis. In quelle buche (alcune scavate nei giardini pubblici e nei campi da calcio delle città) erano stati scaraventati tra 5 mila e 15 mila corpi. Al confronto, i civili morti ad Aleppo sotto le bombe russe e siriane sono un’inezia.

Questa osservazione va fatta non per cinismo ma, al contrario, per spirito umanitario. Le persone innocenti chiuse in quelle fosse sono cadute per mano dei jihadisti dell’Isis, ma anche a causa del fatto che la guerra mossa contro l’Isis in Iraq dalla coalizione guidata da Usa e Arabia Saudita è andata al rallentatore. Anzi: è stata una guerra finta, di soli bombardamenti che misteriosamente colpivano soprattutto il deserto. Nell’evidente speranza che, intanto, l’Isis desse il colpo decisivo ad Assad. Mentre tutti, in Medio Oriente, supplicavano la coalizione di intervenire con maggiore decisione e mettendo, come si dice, “gli stivali sul terreno”.

Tutto quel traccheggiare, ovviamente, si è scaricato sulla popolazione civile. Ed ecco le fosse comuni. Piene di morti che sono figli di nessuno, per i quali nessuno si prende la responsabilità, nonostante che siano stati vittime anche di una precisa scelta strategica.

Siriani e russi hanno fatto il contrario. Con i raid e le incursioni hanno certamente provocato vittime tra i civili. Ma hanno accorciato la guerra e, così facendo, hanno anche risparmiato molte vite.

Per capirlo, senza farsi intortare da clown e pediatri, basta osservare quanto accade a Mosul. A due mesi dall’inizio dell’offensiva per liberare la città, le operazioni militari sono ferme e l’Isis è così poco preoccupato da aver distaccato dal fronte iracheno qualche migliaio di miliziani per mandarli a riconquistare Palmira, in Siria. Questo accade perché anche a Mosul l’alternativa è sempre quella. O attacchi e risolvi in fretta il problema, e così facendo provochi vittime tra i civili come sempre succede in situazioni analoghe (vedi per esempio Gaza, o Fallujah in Iraq nel 2004, o Grozny in Cecenia nel 1994-1995); oppure esiti, e così facendo lasci che i civili restino ancor più a lungo in balia dell’Isis, con le conseguenze ben note.

I generali americani e il Governo iracheno lo sanno bene. A Mosul hanno fatto la scelta politica di bloccare l’avanzata e abbandonare i civili al loro destino. È una scelta legittima ma non più nobile o meno cruenta di quella opposta di accelerare le operazioni, com’è stato fatto ad Aleppo. Quando anche a Mosul salteranno fuori le fosse comuni lo capiremo meglio. A dispetto di clown, pediatri, aspiranti suicide e bambine con la mania di twitter.

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Giacomo Russo Spena

La gente vota ai referendum contro lo status quo? E l'establishment si interroga, tra lo scherzo e il serio, sul suffragio universale.

La maggioranza dei media ormai non ha sentore delle nostre società tanto da non aver previsto risultati come la Brexit e Trump? E allora pronto il "ministero della verità" (come Orwell nel 1984) per controllare informazione perché resta inevasa la questione del chi controllerebbe il controllore.

Credo che il populismo non sia un blocco unitario, così credo esistano diversi populismi (quello di Podemos è ben diverso da quello di Trump o di Grillo). La questione è articolata e da affrontare.

Di certo, l'elite dominante – quella che negli anni della crisi ha accresciuto potere e soldi – continua a non capire la lezione. Va avanti, imperterrita, imboccando un vicolo cieco. Lo stesso vicolo cieco intrapreso dalle Istituzioni europee nel momento in cui continuano a sostenere l'Europa dell'austerity.

Mai un'autocritica, mai un cambiamento nei programmi politici. Anzi. Più il popolo vota contro, più ci si arrocca per difendere i privilegi acquisiti in questi anni.

Una strategia perdente. Ormai la gente è stanca, incazzata ed inizia ad avere fame di diritti. La propoganda non paga più. I populismi hanno un'autostrada davanti.

Tocca capire che declinazione avrà la rabbia popolare perché il rischio, in Italia e in Europa, è di passare dalla padella alla brace. Dall'elite neoliberale al populismo xenofobo e neosovranista.

Europa dell'austerity e nuovi razzismi, due facce della stessa medaglia.
Mala tempora currunt.

 

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