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Elezioni perché? La “fine della politica” distrugge i partiti

La fine della politica ha una ragione evidente. Così evidente da uscire dal chiuso dei pensatoi in cui si secernono analisi complesse ed arrivare – semplice, chiara, definitiva – su alcuni dei migliori editoriali di giornata.

Abbiamo scritto fino alla noia che questa crisi è figlia diretta dello spostamento del potere di decidere – che in linguaggio politico si chiama sovranità – dalla sfera degli Stati nazionali ai “mercati”. I quali, naturalmente, non danno “ordini” ma delimitano rigidamente i confini entro cui il potere di decidere può essere esercitato con qualche grado di libertà. Ad ogni buon conto, “i mercati” hanno preteso che buona parte del potere decisionale statuale venisse formalmente trasferito ad organismi sovranazionali, di incerta o nulla legittimazione democratica, in base a trattati sottratti al voto popolare o a convenzioni pattuite tra contraenti senza esplicito mandato.

Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, ecc, sono alcune di queste istituzioni che hanno un enorme potere decisionale, decisamente prevalente su quello residuale degli Stati, sia per quanto riguarda l’estensione dei confini fisici su cui quella sovranità viene esercitata (un intero continente, nel caso della Ue e della Bce), sia per quanto riguarda i pilastri fondamentali di ogni decisione statuale (gestione del bilancio, della politica economico-finanziaria, legislazione commerciale e produttiva, alleanze internazionali e impegni militari).

Agli Stati nazionali è rimasto insomma assai poco su cui esercitare il potere di decisione. E quel poco, a ben guardare, è lo spazio competitivo su cui si esercitano partiti in concorrenza alle elezioni nei vari paesi. Ma se non c’è quasi niente da decidere (giusto quel qualcosa che “premi” le cordate vincenti), non c’è più alcuna politica.

Nasce da questa condizione oggettiva il senso di indifferenza, o aperta ostilità popolare, verso qualsiasi consultazione. Astensione e generica reazione “vaffa” la fanno in genere da padroni. Resistono ancora le consultazioni locali, in parte, perché lì l’ambito decisionale limitato è una consuetudine, parzialmente compensato da un certo potere di controllo sugli eletti (clientelare, magari, ma in qualche misura tangibile).

Ma le elezioni politiche o presidenziali – là dove ci sono, come in Francia – non sono più terreno di scontro tra diverse opzioni ideali, interessi sociali strutturati (sindacati, partiti, associazioni), tra programmi alternativi di gestione del potere di decidere.

E in effetti i “programmi politici” dei vari concorrenti sono variazioni sul tema, escamotage pubblicitari (scelti dai pubblicitari stessi!), sparate e promesse su questioni anche importanti ma in fondo secondarie (“sicurezza”, immigrazione, incentivi o detrazioni fiscali, diritti di minoranze quantitativamente marginali, costumi sessuali, ecc) a fronte dell’impossibilità di decidere dell’essenziale: produzione e redistribuzione del reddito tra le diverse figure sociali, non più legate da un “patto costituzionale” ormai stracciato dall’alto (le grandi banche d’affari contro le “costituzioni socialiste” del Sud Europa, ricordate?).

Di fronte alle dimensioni colossali di questa diversa dislocazione dei centri della decisioni politico-economica fanno dunque sinceramente pena quei piccoli reazionari che si ammantano di sovranismo, come se davvero il potere di decidere traesse origine da una comunità originale anziché, come in questa situazione, dagli strumenti utilizzati, dalla loro consistenza, dal lor strapotere. Insomma da ammontare e caratteristiche del capitale disponibile, gestito, circuitato.

Una notevole presa d’atto della fine della politica si è potuta leggere oggi anche sul quotidiano economico Milano Finanza, non nuovo a certe interessanti sortite fuori dagli schemi tranquillizzanti in stile Repubblica.

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Macron, avanti un altro!

di Guido Salerno Aletta

L’algoritmo vince ancora, anche in Francia. In politica, come sui mercati, si sfrutta la volatilità: più è alta, più aumentano le probabilità di fare soldi e di raccogliere voti.

Il successo dei candidati de La Republique en Marche che hanno raccolto il 32% dei voti, non è affatto diverso da quello dei grillini in Italia, o di Syriza e Podemos in Grecia e Spagna. Su versanti diversi, la elezione di Donald Trump ed il voto favorevole alla Brexit si iscrivono nel medesimo perimetro: la palese incapacità delle forze politiche tradizionali di fornire, a dieci anni dall’inizio della crisi, una risposta agli squilibri esistenti.

Viene premiato ancora una volta chi riesce ad imporsi come la novità risolutiva con il giusto timing. Chi arriva tardi, come Matteo Renzi rispetto al successo elettorale del M5S, non può che limitarsi al take-over di un partito esistente. L’esperienza vincente di Silvio Berlusconi, con Forza Italia nel 1994, non fu che la prima: offriva agli elettori una sponda nuova nel collasso della prima Repubblica.

Per vincere le elezioni non servono contenuti nuovi, ma solo un contenitore in cui aggregare il consenso dei dissenzienti attivi. A ridurre il numero dei voti che serve per arrivare al potere basta l’astensionismo crescente. Ci si mettono, poi, i meccanismi elettorali che premiano la governabilità: con il 32% dei consensi ed il 51% di astensionismo, le proiezioni al ballottaggio portano ad attribuire al partito di Macron l’80% dei seggi. Una esigua minoranza otterrebbe una rappresentanza schiacciante. Premiare la governabilità a detrimento della rappresentatività è una scorciatoia su cui pure da noi ci si era incamminati, con l’Italicum: prima della censura della Corte costituzionale si prevedeva la attribuzione di un premio di maggioranza al ballottaggio senza che ci fosse una soglia minima di voti.

In Francia, un ipotetico sistema proporzionale avrebbe portato alla esigenza di trovare alleanze in Parlamento, disinnescando la portata dirompente della Rivolution descritta nel libro in cui Macron ha condensato il suo progetto politico. Aveva fiutato già un anno fa l’aria di scontento e di disaffezione dei francesi, sia verso la Presidenza Hollande sia verso gli epigoni di un gaullismo dilaniato dai troppi pretendenti: occorre entrare finalmente nel nuovo secolo, cambiando tutto. Il 2017 è una data simbolica, come lo fu il 1917: allora fu la guerra mondiale a far detonare le tensioni accumulatesi in decenni, per via del collasso dei prezzi e dei redditi agricoli derivanti dalla globalizzazione dei mercati delle materie prime e dei cereali con l’ingresso di nuovi produttori. Stavolta sono i sistemi statuali ad implodere, perché gli apparati pubblici sono autoreferenziali, mentre le regole che disciplinano il lavoro sono troppo rigide rispetto alle esigenze delle imprese. La crisi dipende dalle mancate risposte agli sconvolgimenti tecnologici, demografici e competitivi: serve la Rivolution. Purtroppo, non c’è nulla di nuovo nell’analisi della globalizzazione e della situazione francese, che sembra descrivere quella italiana. Anche il suo liberismo è stantio, identico a quello predicato dalla Signora Tathcher trent’anni fa, ma almeno la Lady di ferro aveva chiaro in testa il progetto di rimettere la City al centro dei mercati finanziari.

Non è affatto vero che destra e sinistra sono categorie desuete, come liberismo e giustizia sociale: la crisi ha delegittimato tutti i partiti tradizionali, in Europa come negli Usa, per via della impotenza dimostrata al governo. La progressiva sottrazione agli Stati delle leve di politica economica, in campo commerciale, industriale, monetario, creditizio, bancario e di bilancio, con la libertà assoluta dei capitali di spostarsi da una parte all’altra del globo, li ha reso impotenti. Mentre le forze politiche tradizionali sono delegittimate dal loro insuccesso, si crea sempre nuovo spazio per nuovi protagonisti. Per alimentare il rogo della Storia, c’è sempre posto: “Avanti, un altro!”

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