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Stefano Rodotà, o la sostanza della Costituzione

Tra le tante volgarità di Beppe Grillo, forse la peggiore fu quando definì Stefano Rodotà “un ottuagenario miracolato dalla Rete”. Eppure poco prima era stato, il professor Rodotà, candidato dal M5S (sia detto a merito del Movimento) alla Presidenza della Repubblica. Ma non incontrava il favore di un PD, ormai renziano, il quale affossò la candidatura di questo giurista sapiente, quest’uomo probo, questo studioso di politica ai massimi livelli, che sarebbe stato un vero garante della Carta costituzionale. E si giunse alla incredibile rielezione di Giorgio Napolitano, che evidentemente dava garanzie diverse, in vista della auspicata “riforma” della Costituzione.
Ora l’ottuagenario miracolato se n’è andato, in punta di piedi, come suo costume, di uomo serio, di intellet
tuale rigoroso. Rodotà è morto. E la Repubblica si priva con questa morte di uno dei suoi figli e padri migliori.
Fu un irregolare della sinistra e questo certo non gli giovò politicamente. Rispettato (a parole) da tutti, a prescindere dalle appartenzenze politiche, stimatissimo a livello accademico, apprezzato fuori dei confini nazionali, Rodotà ebbe una iniziale ingenua fiducia nel neonato Partito Democratico, che lo elesse presidente per neutralizzarlo. Ma se ne allontanò presto, avendo capito che quel partito non solo non faceva per lui, ma che si era ormai indirizzato, molto prima di Matteo Renzi, su di un cammino che lo allontanava non solo dagli ideali della Sinistra, ma dagli stessi valori costituzionali, a cominciare dal discrimine antifascista, un partito-melassa, che in nome della “modernità” e della “efficienza” era disposto a cancellare quanto non era ancora stato buttato a mare dalla criminale insipienza di Achille Occhetto.

Era stato radicale, Rodotà, per la fiducia nella importanza delle battaglie per i diritti civili, ma a differenza del Partito Radicale, Rodotà credeva nella sostanza sociale della Repubblica. I diritti per i quali si batteva non potevano non essere prima di tutto diritti sociali, e non solo riguardare la sfera civile. E a Pannella preferì Enrico Berlinguer. Ma in generale ebbe difficoltà a trovare una “casa” nella Prima e specialmente nella cosiddetta Seconda Repubblica.
Rifiutò cariche e onori, come un Cincinnato che tuttavia non appese la sua penna al chiodo, continuando fino alla fine a battersi per una Italia diversa, non solo genericamente “migliore”.

Addio, Rodotà: non sei stato semplicemente un uomo di legge, un cultore del diritto, ma hai incarnato la sostanza vera, più autentica di una legge concepita non contro il popolo, ma per il popolo.

Non potevi essere Presidente di una Repubblica ove il potere serve a legittimare il diritto e non viceversa. Non potevi rappresentare e guidare un Paese che, in una sua larga parte, a cominciare dal ceto politico e da quello imprenditoriale, della illegalità e della cialtroneria fa i suoi criteri fondamentali.

In fondo, davvero c’entravi poco con questa Italia. Abbiamo sperato, ma eravamo degli illusi. E ora, orfani, ci piacerebbe scoprire che mille piccoli Rodotà emergono e fanno sentire le loro voci, meglio se all’unisono, in difesa della Costituzione Repubblicana e dei suoi valori fondamentali: il lavoro, la giustizia, la pace. Solo così potremo rassegnarci, almeno un poco, a questa perdita così grave.

 

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