La cerimonia dell’imbroglio referendario sull’autonomia del lombardo-veneto è finita. Con l’inevitabile spruzzata di ridicolo che aromatizza le prestazioni leghiste. Con la servile collaborazione di Pd e Cinque Stelle (che insieme “rivendicano” il proprio contributo a questo risultato).
L’affluenza in Veneto è stata decisamente importante (57,2%) e dà la misura della devastazione politica di una grande regione in difficoltà da almeno dieci anni, da quando cioè è esplosa la crisi, aggravata dalle ricette “austere” della Troika. In Lombardia è stata parecchio più bassa – meno del 40%, ma ancora non è possibile dire la cifra esatta perché il sistema elettronico voluto da Roberto Maroni si è rivelato assai meno efficiente del vecchio sistema “a mano” (miracoli che solo i leghisti riescono a produrre).
Gli ultimi giorni di campagna referendaria (pre-elettorale, nella sua essenza) avevano visto il disperato sforzo leghista di marcare la distanza con la Catalogna. Con i piddini – e i loro media, a partire da Repubblica – impegnatissimi in senso opposto, ma senza riuscire a portare alcun argomento diverso da “le regioni più ricche che non vogliono spartire la torta con quelle più povere” (come fa la Germania col resto d’Europa, insomma). E in effetti, come abbiamo scritto più volte, la rivolta catalana ha tutt’altre caratteristiche ideali, sociali, di classe.
La miseria reazionaria del “progetto” leghista era ben evidente, ma il presidente regionale Luca Zaia ha voluto precisarla solo ad urne chiuse: “Noi chiediamo tutte le 23 materie (“contendibili” ai sensi della riforma costituzionale stolidamente voluta dal Pd quasi venti anni fa, ndr), e i nove decimi delle tasse”.
Ma quale secessione, ma quale indipendenza… I leghisti vogliono solo gestire un po’ più di fondi pubblici per gli interessi propri e di alcuni strati sociali di riferimento (le imprese, in sostanza), continuando a pretendere tutti i vantaggi che lo Stato unitario garantisce loro. Tutto qui.
Del resto, si sa da sempre che non esiste un “popolo veneto” o uno “lombardo”, che non esistono lì unità di lingua e tradizioni differenti da quelle italiane, ecc.
Dunque resta solo la volgare tracotanza di un sub-sistema produttivo che funziona finché fa parte delle filiere che portano il prodotto-componente in Germania, che funziona insomma da “contoterzista” e ha margini di profitto tutto sommato ristretti proprio per questo motivo (il prezzo lo stabilisce il capofiliera, non il subfornitore). Metter mani su una quota delle tasse diventa perciò il modo più semplice di ridurre i costi e conformare il territorio intorno ai bisogni dell’impresa (infrastrutture, ecc). Alla popolazione fatta di lavoratori dipendenti, pensionati, disoccupati, ecc, si promette la solita favola del “siamo tutti nella stessa barca”, da cui dovrebbe derivare maggior benessere se le cose andranno meglio per le imprese. Come nemici di comodo, bastano “Roma ladrona” e i migranti, come se nel lombardo-veneto la corruzione e la presenza mafiosa fossero innocue macchie sulla pelle, invece che parti integranti della struttura di potere locale (basta ricordare quanti arresti avvengono annualmente su questo fronte, compresi numerosi amministratori locali “di provata fede”).
Di fronte all’avanzare di questa narrazione falsificante, le altre correnti politiche (o clientelari, come nel caso del Pd) non hanno trovato di meglio che avallarla, facendola propria. Piddini e pentastellati hanno così dimostrato, per un verso, di essere perfettamente allineati su una linea profondamente reazionaria, e per un altro di non avere altri argomenti con cui “sedurre” gli elettori.
Del resto, vagli a spiegare – agli elettori – che chiunque vada al governo (anche locale) dovrà rispettare il “patto di stabilità” inchiavardato dai trattati europei e infilato a forza nella Costituzione (l’obbligo al pareggio di bilancio).
Vagli a spiegare che i loro problemi discendono in gran parte da questi obblighi e dal progressivo evaporare della capacità produttiva autonoma (i “contoterzisti”, per definizione, difficilmente elaborano strategie complesse e “piani B”).
Vagli a spiegare, insomma, che il loro impoverimento non si arresterà pagando meno tasse su uno stipendio che non cresce più o che addirittura diminuisce (quando si cambia posto di lavoro o titolare della stessa impresa, oppure nel passaggio generazionale(.
Più facile, molto più facile, inventarsi nemici e soluzioni di comodo, senza mettere in discussione niente. Ma come tutte le soluzioni “facili”, che non toccano il cuore dei problemi, anche questa avrà il fiato corto.
Ne riparliamo dopo le elezioni…
P.s.Per quanto riguarda invece la materia strettamente fiscale oggetto del referendum, vi consigliamo la lettura di questo lancio dell’agenzia Agi (non proprio bolscevica…).
Cos’è il residuo fiscale?
Banalizzando il concetto, è la differenza tra quanto ogni cittadino paga allo Stato sotto forma di tasse e quanto ne riceve, attraverso i servizi, sotto forma di spesa pubblica. È uno strumento nato per valutare la capacità dello Stato di redistribuire le risorse: i cittadini più ricchi pagano più tasse, con le quali si aiutano quelli più bisognosi.
In Italia la sperequazione territoriale dipende dalla circostanza che i cittadini ricchi sono concentrati in alcune zone del Paese e quelli povere in altre. Il residuo fiscale è un indicatore sfuggente, evanescente, molto difficile da calcolare. I proponenti del referendum della Lombardia, hanno citato uno studio di Eupolis, che stimerebbe in 57 miliardi il residuo fiscale della Regione. Altri studi, invece, collocano il residuo fiscale lombardo tra i 20 e i 30 miliardi. L’asticella di quello Veneto sarebbe ancora più giù.
Addentrarsi nei meandri del residuo fiscale può addirittura portare sorprese inaspettate.
In un contributo per Lavoce.info, Fabrizio Tuzi, dirigente tecnologo dell’istituto sui sistemi regionali, ha pubblicato una tabella del Cnr-Issirfa su dati Istat e Cpt, nella quale sono indicati i valori medi pro-capite del residuo fiscale per gli anni che vanno dal 2013 al 2015. Se da un lato c’è la conferma che il conto del dare è superiore di 5.600 euro rispetto al conto dell’avere per ogni singolo cittadino lombardo, dall’altro è altrettanto vero che gli abitanti del Lazio sono poco da meno. Versano nelle casse dello Stato 3.672 euro pro-capite in più di quello che ricevono. Sono secondi nella classifica del residuo fiscale, prima del Veneto (che ha un residuo fiscale di soli 2.078 euro pro capite) e dell’Emilia Romagna (3.293 euro). Poi via via giù gli altri, dal Piemonte (1.162 euro), alla Toscana (805 euro), mentre la Regione i cui abitanti versano di meno rispetto a quanto ottengono, è la Calabria (-5.528 euro pro-capite).
Roma ospita molte delle funzioni centrali. Ma del resto le aziende della Lombardia e del Veneto vendono i loro prodotti nel mercato nazionale. E che dire dei 2,5 miliardi che il Sud trasferisce al Nord grazie agli studenti che si trasferiscono ogni anno per studiare nelle Regioni centro settentrionali?
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Mauritius
i veneti pagheranno mai per gli scandali bancari incredibilmente onerosi per il paese?
di scandali e gravi perdite bancarie ce ne sono state non poche negli ultimi decenni
o meglio le classi dirigenti venete che purtroppo hanno votato o selezionato in economia, finanza etc in Veneto?
il Veneto è forse la regione che più segue il mercato capitalistico ….bene guardate come è messa natura, ambiente, diritti, bene pubblico e poi capite a che livello è il Veneto