“La crisi catalana, da qualunque parte la si guardi, è forse la peggiore della storia (dell’Unione Europea, ndr), ancora maggiore della Brexit”. Così scriveva pochi giorni fa il giornalista Alberto Negri, lucidissimo commentatore dei fatti mediorientali e al tempo stesso convinto europeista, sottolineando un aspetto che continua a sfuggire a molti.
Soprattutto a coloro che da sinistra, utilizzando un metro di giudizio libresco e ideologico, continuano a chiedersi ‘a chi giova’ un’eventuale secessione catalana, non cogliendo il carattere potenzialmente dirompente per gli equilibri interni al polo imperialista europeo del conflitto in corso tra Barcellona e Madrid.
La partita in corso non riguarda solo l’eventuale unità dello Stato Spagnolo, ma l’opportunità di mettere in crisi un processo continentale di integrazione e concentrazione del potere e della ricchezza che continua a generare crisi e contraddizioni, all’interno delle quali ogni forza realmente antagonista non può che incunearsi nel tentativo di allargare la frattura, e non certo ricucirla.
Nell’ultimo mese ogni mossa del governo e degli apparati spagnoli contro le forze indipendentiste in Catalogna è stata accompagnata e sostenuta da praticamente tutti gli organismi di governance dell’Unione Europea, senza eccezioni.
Prima la censura e gli arresti, poi la proibizione del referendum del 1 ottobre, poi il tentativo di impedirlo con la violenza di massa; ora l’Unione Europea avalla addirittura un colpo di stato ‘da manuale’ che mira, attraverso l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione post-franchista, a destituire il governo catalano democraticamente eletto e a mettere il bavaglio alla stampa per forzare elezioni condizionate da un vero e proprio stato d’assedio che riconsegnino il potere all’oligarchia centralista spagnola e a quella catalana anti-indipendentista.
Nessuna voce critica si è levata dall’establishment europeo a difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo catalano e della democrazia. Gli stessi ambienti ed esponenti dell’oligarchia continentale che sostengono una maggiore autonomia delle regioni ricche del Nord Italia – perché funzionale ad un ridisegno dello spazio europeo in linea con le esigenze di maggiore integrazione con la filiera produttiva e politica tedesca – si schierano senza tentennamenti a difesa di Madrid.
Dalla vicenda catalana, così come da quella greca, la tradizionale narrazione autocelebrativa di una Unione dei popoli e dei cittadini all’insegna della democrazia, dei diritti, della tolleranza e della modernità esce di nuovo e irrimediabilmente delegittimata.
L’Unione Europea non solo continua a violare e a negare quella volontà popolare che ogni volta che può esprimersi su questioni dirimenti rigetta i diktat di Bruxelles, Francoforte e Parigi, ma recupera e rivaluta gli elementi e le caratteristiche più reazionarie dei singoli stati nazionali, come la monarchia spagnola erede diretta e continuatrice del regime fascista, pur di riuscire a puntellare l’attuale status quo. L’obiettivo è garantirsi un grado di stabilità e di coesione interna tali da permettere al polo imperialista europeo di poter competere ad armi pari con i suoi contendenti sullo scenario globale.
Per questo la “grana catalana” in seno all’Ue non può essere liquidata come una faccenda estranea, aliena agli interessi delle classi popolari e alla strategia dei comunisti e di tutti quei movimenti che si battono per la rottura dell’attuale status quo.
Inoltre la vicenda catalana riporta all’ordine del giorno alcune questioni fondamentali che non possono essere rimosse: quali possono essere le caratteristiche e i soggetti alla base di una rottura possibile, qui ed ora, all’interno di un polo imperialista nel XXI secolo? Date le condizioni di partenza, i rapporti di forza tra le classi, la mancanza di un polo alternativo anticapitalista e antimperialista sul piano internazionale e la debolezza estrema di una soggettività politica antagonista, è impensabile attendersi che la rottura con l’attuale ordine sociale, economico e ideologico nell’occidente capitalistico debba e possa avvenire sulla base di forme ed espressioni che hanno caratterizzato una composizione di classe spazzata via da decenni di processi di precarizzazione e atomizzazione sociale.
Chi, all’interno della contesa tra Repubblica Catalana e Spagna Reazionaria, pretende di riconoscere una “classe operaia” da identificare a partire da forme ed espressioni che essa non possiede più da decenni e che appartengono alla storia, farebbe bene a cercarla in una composizione di classe dinamica e contraddittoria ma pur sempre alla base di una mobilitazione popolare che non ha eguali nel resto del continente e che si scontra con gli apparati dello Stato, le sue istituzioni, la sua ideologia e la sua legalità.
Anni di gestione autoritaria e liberista della crisi economica da parte dell’Unione Europea e dei governi di Madrid e Barcellona, insieme al muro opposto al tentativo di riforma dello Statuto di Autonomia catalano, hanno prodotto in Catalogna un processo di politicizzazione e radicalizzazione di settori sociali di massa e delle loro rappresentanze politiche che è alla base dell’attuale sfida indipendentista, all’interno della quale la lotta di classe si esprime anche attraverso la rivendicazione nazionale.
Accanto ad una piccola borghesia radicalizzatasi a causa di potenti processi di proletarizzazione prodotti dalla ‘globalizzazione’ e dal feroce meccanismo di integrazione europea si muovono ampi settori popolari e proletari che nella lotta per l’indipendenza intravedono una possibilità di rompere gli asfissianti equilibri economici e sociali imposti e blindati non dal solo Partito Popolare ma da un vero e proprio regime, frutto dell’autoriforma del franchismo nel 1978 e che riunisce in un solo blocco monolitico anche i socialisti e la nuova destra modernista di Ciudadanos.
Al momento il movimento popolare catalano non costituisce sicuramente ancora un soggetto autonomo dal punto di vista organizzativo e dotato di una propria linea strategica indipendente, anche a causa delle ambiguità e delle complicità che contraddistinguono alcune forze della sinistra spagnola e catalana. Ma il suo ingresso sulla scena durante le proteste contro gli arresti del 20 settembre, il referendum del 1 ottobre e ancor più lo sciopero generale del 3 ottobre è stato imponente. E gli eventi di questi giorni costituiscono una ‘scuola’ ideologica e di coscienza da non sottovalutare.
Che il movimento popolare sappia organizzarsi rapidamente e prendere la guida del conflitto con Madrid evitando che si attesti su una sterile ricontrattazione tra elites spagnole e catalane (ad esempio sull’autonomia fiscale) e acquisisca caratteristiche di rottura sul piano economico e sociale è ancora presto per dirlo.
Sicuramente il ricatto delle imprese catalane e la mancanza di sostegni significiativi all’interno dell’Unione Europea e della cosiddetta comunità internazionale spingono i dirigenti della Generalitat, in primis Puigdemont, a rifuggire un’accelerazione e una radicalizzazione dello scontro che possa alimentare forme di organizzazione e contropotere popolare ostili in prospettiva agli stessi interessi della piccola borghesia catalana e quindi della sua rappresentanza politica. Puigdemont e i suoi collaboratori finora hanno cercato di mantenere il conflitto all’interno di un livello fondamentalmente civico e istituzionale, anche per non rompere definitivamente con quella media e alta borghesia catalana che sono ferocemente contrarie all’indipendenza e non hanno esitato a schierarsi con gli apparati dello stato contro il proprio popolo.
Ma l’intransigenza dello Stato Spagnolo e il sostegno totale da parte dell’Unione Europea alla strategia repressiva di Madrid potrebbero ulteriormente indebolire e condizionare Puigdemont – eliminando ogni spazio e possibilità di mediazione – e rafforzare così le spinte popolari e conflittuali all’interno del movimento indipendentista.
Il colpo di stato ‘costituzionale’ di Madrid in Catalogna può nei prossimi giorni estendere la base di classe dell’indipendentismo anche a quei settori popolari che finora si sono riconosciuti nella linea ‘equidistante’ di Podemos ma che di fronte ad un intervento apertamente fascista e colonialista delle istituzioni centrali potrebbero decidere di schierarsi come del resto hanno già fatto il 1 e il 3 ottobre scorsi.
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Paolo Iafrate
C’è un po’ di confusione nell’articolo e soprattutto in coloro che si immaginano di sx. Se è valida una analisi teorica che vede l'”autodeterminazione” come elemento di rottura con lo stato reazioario, allora è valida la teoria della classe abbiente e medio borghese globalizzata/standardizzata, che si fotografa su un territorio fisico, che vuole escludere il resto “meno produttivo”, meno capace, meno cosciente e così via. In tutto questo la storia e le dinamiche politiche chi le gestisce? La destra ovviamente, a cui si lascia uno spazio di manovra grandissimo
Antonio
Questo commento di Paolo mi pare porti più confusione che chiarezza, perché non chiarisce in cosa consisterebbe la confusione dell’articolo! Tra l’altro parla di classe borghese media ecc., ma non sa spiegare quali siano i reali rapporti di forza nel paese e nell’UE; non mi pare un’analisi particolarmente pregnante. Per tacere del fatto che l’implicazione logica ( “se…..allora è valida”) , rimane una costruzione formale ma non sostanziale sul piano del ragionamento sull’autodeterminazione.