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Renzi-De Benedetti. Una cordata identica a quella berlusconiana

Chi governa davvero in Italia? Molti poteri diversi, ma certamente non i “rappresentanti del popolo”.

Teniamo da parte, per una volta, gli organismi sovranazionali (Ue, Bce, Fmi, ecc) e seguiamo, sia pur di rimbalzo, la strana storia della speculazione borsistica di Carlo De Benedetti sulle banche popolari, innescata senza ombra di dubbio dalla notizia datagli da Matteo Renzi: “quella riforma lì la facciamo”.

Tecnicamente si chiama insider trading, ovvero uso speculativo di notizie “spifferate” da qualcuno all’interno di aziende o istituzioni, ma che non sarebbero mai dovute arrivare all’orecchio di un investitore professionale, capace dunque di muovere milioni se non miliardi di euro o dollari. E’ un reato penale preciso e, se riconosciuto giudiziariamente, comporta la condanna sia dello speculatore che dell’autore della “soffiata”.

Una sola cosa è certa, perché la ha ammessa lo stesso De Benedetti quando è stato interrogato dalla Consob circa due anni fa – autorità di controllo della borsa, che aveva registrato «Un’operatività potenzialmente anomala di alcuni intermediari, in grado di generare plusvalenze per 10 milioni di euro»«Anche lui – e sembra una condanna – accompagnandomi all’ascensore di Palazzo Chigi mi ha detto:Ah! Sai, quella roba di cui ti avevo parlato a Firenze, e cioè delle Popolari, la facciamo”. Ma proprio mentre un commesso stava aprendo la porta dell’ascensore, quindi non fu parte della conversazione durante la colazione, fu proprio nel dirci: ciao, arrivederci, mi ha detto: “Ah, ti ricordi di quella volta, ti ricordi di quando ti parlai che volevo fare le Popolari? Ecco, lo faremo”. Non mi ha detto con che. Ero già un piede sull’ascensore; non mi ha detto se le faceva con un decreto, con disegno, quando. Non mi ha detto niente, però mi ha detto sta’ roba riferendosi ad una conversazione più ampia che avevamo avuto ancora a Firenze su che cos’erano le cose che lui doveva fare”.

Quella di De Benedetti non è un’ammissione di colpevolezza, perché – a suo avviso – sulle banche popolari oggetto della riforma avrebbe investito meno del solito: «Ma se io avessi saputo avrei fatto 20 anche sulle Popolari, o di più, e ho fatto meno!… ma perché l’avrei fatta così piccola? Se avessi saputo?». In ogni caso la sua società è riuscita a incassare una plusvalenza di 600mila euro, così, senza fatica.

Vista da fuori la scena è molto chiara. C’è un finanziere proprietario fra l’altro di un grande gruppo editoriale (Repubblica-L’Espresso) che frequenta abitualmente il presidente del consiglio e segretario del partito (Pd) di cui lui stesso è da anni “la tessera numero 1”. Non è un segreto e lo ammette pubblicamente: “Normalmente con Renzi facciamo breakfast insieme a Palazzo Chigi”. E altrettanto fa con Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, e con Maria Elena Boschi, allora ministro delle riforme costituzionali (“anche con lei sono molto amico, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra”).

Fa altrettanto, anche se meno di frequente, con il direttore generale della Banca d’Italia, Fabio Panetta, da cui comunque assume informazioni importanti sui problemi esistenti e sulle possibili soluzioni allo studio del governo (anche sulle Popolari).

Contatti e informazioni che portano a investimenti relativamente “sicuri”, facili, privatissimi.

Poi ci sono le vanterie politiche del finanziere, che rivendica alla sua iniziativa l’elaborazione di una delle leggi più criminogene del governo Renzi, ossia il Jobs Act: «Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il job-act è stato – qui lo dico senza, senza vanto, anche perché non mi date una medaglia, ma il job-act gliel’ho, gliel’ho suggerito io all’epoca come una cosa che poteva – secondo me – essere utile e che poi, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l’unica cosa che gli è stata poi riconosciuta».

Brutalmente è questa la realtà della “politica” italiana. Naturalmente esiste un’altra e diversa cordata, anch’essa incardinata intorno a un impero editoriale (Mediaset-Mondadori) che fa capo a Silvio Berlusconi. Due concorrenti che sono venuti spesso alle mani, finanziariamente e giudiziariamente, ma che fanno anche blocco contro gli “intrusi”, siano essi i Cinque Stelle, la Lega, i sempre pericolosi “comunisti” (categoria, nella loro testa, molto più ingombrante di quanto nella realtà purttroppo non sia).

Questo scontro dura da almeno tre decenni, fra alti e bassi, guerre e paci. Ma ci è stato venduto come uno “scontro di civiltà” tra il centrodestra e il centrosinistra, come se votar per uno o per l’altro cambiasse le sorti del paese, invece che le dimensioni del business dei due contendenti. Ovvio che quando governa Berlusconi il suo impero vada meglio, e altrettanto accada al gruppo De Benedetti quando la bilancia pende dalla parte opposta.

Ma a noi, gente che lavora-lavoricchia-cercalavoro, cosa mai può cambiare tra uno che mette il Jobs Act e uno che promette di tenerlo? Tra uno che alza l’età pensionabile e uno che promette di pensarci su (prima delle elezioni, sia chiaro)? Tra uno che specula in borsa con le informazioni da dentro il governo e uno che specula in borsa stando al governo?

Come si fa, insomma, a non augurarsi che il potere ritorni al popolo?

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