Vogliamo levarci qualche chiodo dalle suole? E leviamocelo…
Nel dibattito che ha accompagnato la presentazione, nella sede dell’ordine degli avvocati di Genova, il docufilm di Repubblica sull’uccisione di Giulio Regeni (“Nove giorni al Cairo”, di Carlo Bonini e Giuliano Foschini), Enrico Zucca si è posto e ha rivolto al pubblico la domanda:
“l’11 settembre 2001 e il G8 hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?“.
Il dottor Zucca è uno degli uomini che meglio conosce le “gloriose vicende” dei vertici della polizia italiana coinvolti nella mattanza di Genova 2001, visto che è stato sostituto procuratore della Corte di Appello, dunque tra i giudici del processo Diaz che ha portato alla condanna di diversi funzionari di polizia. Sentenza confermata dalla Corte europea di Strasburgo, che ha fra l’altro condannato lo Stato italiano a risarcire le vittime di torture nella scuola Diaz.
Il dottor Zucca è insomma un uomo delle istituzioni che parla dopo aver studiato a lungo le carte, non certo per “pregiudizio” (un magistrato ha a che fare tutti i giorni con uomini della polizia, carabinieri, finanza, ecc). Uno che sa benissimo che “giuridicamente” quei funzionari sono stati condannati per reati diversi dalla tortura soltanto perché questo reato – caso quasi unico ormai al mondo – non è previsto da codice penale (circostanza che ci ha portato altre condanne dalla Corte europea dei diritti umani, cui peraltro l’establishment italico tributa di continuo grandi onori verbali). Ma le tecniche e i comportamenti dei condannati rientravano ad abbundantiam in quella fattispecie.
Abbiamo dunque questa strana situazione: uno Stato formalmente democratico che mantiene o eleva ai massimi gradi delle forze di polizia – ultimo caso: Gilberto Caldarozzi, uno dei principali condannati del processo Diaz e oggi vice direttore della Dia – diversi condannati per aver personalmente torturato innocenti o aver consapevolmente protetto dalle indagini, per anni, i torturatori. Questo Stato chiede all’Egitto – una dittatura militare di fatto, che però si autodefinisce uno Stato democratico perché tiene anch’esso delle elezioni politiche – di individuare, condannare e d eventualmente consegnare alla giustizia italiana egli agenti di polizia o dei servizi segreti egiziani responsabili delle torture e dell’omicidio di Giulio Regeni.
Immaginiamo facilmente le facce dei diplomatici egiziani mentre rispondono ai colleghi italiani con il sorrisetto complice di chi sta pensando “ma guarda un po’ chi è che mi viene a fare la predica…”
Fin qui ci sarebbe solo da solidarizzare con la famiglia Regeni e riconoscere nel dott. Zucca un magistrato che rispetta le norme di legge e non le consuetudini dell’obbedienza all’Amministrazione.
Ma stiamo scendendo velocemente nella fogna della post-democrazia, quel mondo dove il voto popolare è vissuto con un certo fastidio (meglio manipolarlo, magari con leggi elettorali fortemente maggioritarie e un buon uso delle moderne tecnologie, vero?) e le critiche documentate agli apparati vengono a loro volta criminalizzate.
Accade perciò che il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura – Giovanni Legnini, un politico – ritenga necessario aprire il plenum dell’istituzione ribadendo “stima e fiducia ai vertici delle forze di polizia”, mentre invece stigmatizza le parole di Zucca come “una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata”.
Tutto qui? No, ovviamente. Nel frattempo il ministero della Giustizia (ancora guidato da quell’Andrea Orlando allegramente definito “sinistra del Pd”) aveva fatto sapere che avrebbe acquisito gli atti relativi alle dichiarazioni del sostituto procuratore Zucca. E non certo per conferirgli un premio…
Direte: “che potere di merda… per fortuna c’è ancora la libera stampa democratica che vigila e bastona queste prepotenze”.
Errore. Un esimio “giornalista democratico”, uno di quelli che giura di voler mantenere aperto il riflettore sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, addirittura un vicedirettore del Corsera nonché conduttore di un programma televisivo in prima serata, scrive questo pensosa contorcimento per bastonare… il dott. Zucca! Leggiamo con attenzione:
[…] I pestaggi di Genova restano una pagina vergognosa. E non meno vergognoso è che — a diciassette anni e svariati processi di distanza — alcuni protagonisti di quelle vicende si ritrovino negli ingranaggi dello Stato. Ma un episodio infame della nostra storia non può venire trasformato nel suo tratto distintivo. Non è serio mettere sullo stesso piano i lati oscuri, ma pur sempre eccezionali, di una democrazia con le pratiche di una dittatura militare.
Il relativismo è un’arma dialettica disonesta perché da settant’anni, da destra a sinistra, mette tutti sullo stesso piano. La violenza incontrollata di un gruppo di agenti in divisa con i metodi di una polizia segreta. Il cittadino che paga un bollo in ritardo con l’evasore totale. Nessuno è perfetto, tantomeno chi catechizza le imperfezioni altrui. Ma le persone non sono tutte uguali, e neppure gli Stati. Se la regola del dottor Zucca venisse applicata, l’Italia non avrebbe più titolo per chiedere niente a nessuno. E la democrazia, che a differenza delle dittature può permettersi questi cali di autostima, finirebbe per rinnegare la sua ragione sociale: tutelare i diritti dei propri cittadini, compreso quello del dottor Zucca di dire ciò che pensa.
Molte parole per dire una sola cosa: se qualche poliziotto ha fatto delle torture a Genova è solo “una mela marcia” (o un cesto), ma lo Stato non c’entra e non può essere accusato di essere poco democratico. Mica siamo sullo stesso piano dell’Egitto!
E’ una vecchia tesi difensiva dei più immondi poteri della terra. Con una differenza, però. In genere, nel mondo, quando una “mela marcia” viene presa in castagna e condannata – non è frequente, nel caso di poliziotti, ma qualche volta accade – viene anche espulsa dai ranghi. Non è un grande sforzo, solo uno scaricabarile, spesso compensato con una lettera di referenze per il “privato” che dovesse assumerli. MA insomma, lo Stato cerca di far vedere che questi comportamenti non li premia…
Qui no. I condannati hanno scalato le vette. E ci rimangono. Con la benedizione dei Legnini e dei Gramellini di turno.
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