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Il logorio che prepara il “governo tecnico”

Due mesi senza riuscire a fare un governo possono sembrare tanti, specie se “il programma” da realizzare è già scritto nei trattati, a cominciare da quel Fiscal Compact che dal 2019 diventerà l’alfa e l’omega di ogni esecutivo. La situazione attuale, oltretutto, non è più quella ante elezioni, quando alcune forze politiche – quelle poi uscite premiate da voto – sembravano “populiste ed euroscettiche”. Sia Salvini sia Di Maio (e quest’ultimo in modo molto netto) hanno rapidamente messo da parte ogni velleità di mettere in discussione i vincoli europei. Dunque non sembrerebbero esserci ostacoli veri alla formazione di un governo comunque obbligato a seguire una strada già tracciata.

Eppure non si schiodano dai veti incrociati.

Per provare a capire le ragioni dello stallo bisogna per forza far riferimento a due fattori strettamente intrecciati, anche se di peso alquanto diverso.

Sul piano strettamente interno, “politicista”, il sistema partitico è diventato sostanzialmente tripolare ma sulla base di dinamiche “maggioritarie” tipiche di un sistema bipolare. Anche la forza nata per rompere lo schema – i pentastellati – sono cresciuti seguendo la stessa dinamica, ma in chiave contrappositiva radicale: “noi” contro tutti gli altri, sostanzialmente uguali (cosa vera, oltretutto, con piccolissimi distinguo).

Dismessi gli abiti “rivoluzionari” per quelli tranquillizzanti degli statisti, però, è venuta meno anche la principale differenza tra “i nuovi” e il vecchio schieramento politico. I malumori evidenti tra gli attivisti grillini mostrano comunque che le svolte improvvise possono anche essere fatte, ma è difficile farle metabolizzare rapidamente a un corpo sociale ed elettorale costruito sulla purezza e differenza antropologica.

Idem dicasi per il centrodestra, o almeno per la sua frazione leghista, capace di mietere successi promettendo cose impossibili senza rompere il quadro delle “compatibilità di bilancio” – la cancellazione della legge Fornero e la flat tax – ed anche la coalizione con Berlusconi (fresco di accordo “europeista” con il nemico numero uno, Angela Merkel).

Il Pd, dopo la disfatta del renzismo, rischia seriamente la polverizzazione, lacerato tra ansie “governiste” (tipiche di ogni aggregato fatto di poltronisti a prescindere) e necessità di mantenere il ruolo di caposaldo europeista, necessariamente impopolare.

Da questa situazione è insomma estremamente difficile far uscire un “governo politico”, ossia una coalizione cementata da pochi punti programmatici sufficientemente credibili da presentare “al pubblico”. Per ognuno degli eventuali “contraenti”, infatti, apparire come “traditori” rispetto a una storia di contrapposizioni apparenti durissime diventerebbe un boomerang.

Nello stallo generale diventa perciò visibile il lavorio logorante dei maggiori sconfitti del 4 marzo – Renzi e Berlusconi – che puntano scopertamente a impedire una qualsiasi “quadra”. Le prese di posizione puramente ostative, pregiudiziali, apparentemente “illogiche” per delle forze che si autodefiniscono “responsabili”, hanno un senso logico sono se mirate a impedire qualsiasi soluzione. A “bruciare” qualsiasi candidato politico.

All’orizzonte di questo lavorio non ci sono però nuove elezioni, ma solo un “governo tecnico”, che stia in piedi il tempo di scrivere la “legge di stabilità” insieme alla Commissione europea e una legge elettorale fortemente maggioritaria, riportando in vita la dinamica bipolare.

In fondo, una volta “normalizzati” i Cinque Stelle – adesione alla Nato e alla Ue, senza obiezioni – verrebbe anche meno il rischio che a vincere possa essere una forza “incontrollata”.

Per una sinistra degna di questo nome – radicalmente alternativa ai poteri internazionali e quindi anche al “sistemino politico” interno – ci sarebbe uno spazio immenso. Basta liberarsi dei fantasmi di una stagione politica ingloriosa, morta e sepolta. E lavorare tanto fra la nostra gente…

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