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Speciale Casa delle Donne – Terza Parte

Prosegue e si conclude il nostro speciale approfondimento sulla vicenda che coinvolge la Casa Internazionale delle Donne di Roma, messa a rischio dalla richiesta di 800 mila euro da parte del Comune di Roma e dalla volontà, espressa attraverso una mozione approvata in Aula, di mettere a bando i servizi che la Casa delle Donne fornisce da anni alla collettività.

Una storia complessa, che da un lato vede l’approccio legalitario ed “economicistico” dell’amministrazione Raggi (ma il riassesto e la messa a profitto dei beni immobili del Comune – a prescindere da chi li utilizza e come – è stata inaugurata da Ignazio Marino con la famosa/famigerata delibera 140), dall’altro la funzione sociale innegabile e comprovata della struttura di Trastevere, la cui valutazione dovrebbe trascendere dal mero calcolo “guadagni/perdite” e rientrare in una complessiva analisi di quello che serve a cittadini e territorio in termini di politiche sociali, e di chi è in grado di fornirlo sulla base di esperienza, competenze e conoscenza diretta dei problemi da affrontare.

Non sta succedendo solo alla Casa delle Donne, anche se per importanza e storicità naturalmente la vicenda colpisce molto l’immaginario della gente. Sta accadendo – ad esempio – al Grande Cocomero a S.Lorenzo, una associazione che si occupa di assistenza neuropsichiatrica per bambini ed adolescenti. E’ capitato a tante realtà ormai parte integrante del tessuto sociale della nostra città, che in questi ultimi anni (dal 2015 in poi) hanno dovuto fare conti con pesanti richieste economiche da parte del Comune.

Del caso specifico della Casa Internazionale delle Donne ed in generale di questo complessivo attacco alla “socialità dal basso” nella nostra città ne abbiamo parlato con Elisabetta Canitano, già candidata presidente al Consiglio Regionale del Lazio per Potere al Popolo e responsabile di una delle associazioni attive all’interno della Casa.

Le ultime notizie, che ormai risalgono ad un paio di giorni fa, mettono di fatto la situazione in pausa fino a metà giugno. A che punto siamo, secondo te?

Mi rifaccio a quanto illustrato dalle compagne che hanno partecipato all’incontro con la sindaca e gli assessori, e anche ad alcune prese di posizione come ad esempio al comunicato di Paolo Ferrara (capogruppo M5S in Campidoglio), che ha dichiarato non esistere l’intenzione di sfrattare la Casa, e che raccontare che il Comune vuole mandare via la Casa delle Donne è una strumentalizzazione. Beh, se non era vero niente siamo contente, che dire! La verità è che noi avevamo avviato una trattativa con il Comune che poi è stata bruscamente interrotta per approvare poi la mozione della scorsa settimana. Una mozione che suonava molto minacciosa”.

In effetti il senso della mozione era abbastanza chiaro, e non si prestava a molte interpretazioni. In che modo state reagendo ai nuovi sviluppi?

Beh, ci sentiamo un po’ “sballottate” tra mozioni, dichiarazioni, richieste di denaro che di certo non abbiamo… adesso siamo in attesa che vengano prese in considerazione le nostre richieste. La realtà è che per mantenere la casa, per proteggerla, per aggiustarla abbiamo speso molto, negli anni. Ci siamo caricate quell’immenso stabile, e non è che sia costato poco! Veniamo accusate – ed è un paradosso – da una parte di non aver pagato i nostri debiti, e dall’altra di aver messo a regime economico qualunque attività. Ma se dobbiamo pagare dei debiti, qualcosa dobbiamo guadagnare… Nella casa c’è un ristorante, c’è un ostello e abbiamo affittato per anni le sale riunione proprio tentando di fare fronte ai costi ed ai conti. Ed in buona parte ci siamo riuscite: abbiamo delle donne che lavorano, le pulizie, abbiamo una segreteria. Questo tentativo di attirarci l’ira del popolo contro è un po’ un tentativo misogino di dire “eh, ma queste che vogliono”!

La dichiarazione di Ferrara mi fa sperare, noi dell’associazione Vita di Donna abbiamo ininterrottamente fatto assistenza ginecologica gratuita o a libera offerta; collaboriamo con l’ambulatorio del colonnato e con i volontari di Regina Coeli, collaboriamo con la ASL Roma 1, siamo capofila per il volontariato materno infantile. Voglio dire, non è che la Casa delle Donne è un monolite chiuso in se stesso. Se poi la relazione con il Comune ci consentirà di fare di più e di meglio, siamo le prime ad augurarcelo. Abbiamo gestito un archivio, abbiamo conservato quella che è la storia delle donne, abbiamo la sede di associazioni che si occupano di violenza… insomma, io credo che se si riesce ad evitare questa levata di scudi probabilmente sarà più facile trovare punti di equilibrio”.

Secondo te la reazione che a livello popolare e di società civile è arrivata in difesa della Casa delle Donne può suggerire alla Giunta Raggi un approccio diverso, sia a proposito della vicenda che vi riguarda che in generale nei confronti di tutte le esperienze di socialità a Roma?

“Toccare con mano quello che la Casa è per le donne sia la migliore testimonianza di come negli anni non si sia state là dentro a fare i comodi nostri, ma a lavorare per essere una realtà importante per questa città, per le donne e per gli uomini. Una spiegazione pratica del perchè La Casa debba continuare a lavorare con le modalità che l’hanno caratterizzata negli anni”.

E rispetto al contesto più generale? Il provvedimento che vi ha colpito è simile ai molti che stanno mettendo in difficoltà, o facendo direttamente chiudere, molte esperienze sociali autogestite “dal basso” a Roma. Per essere chiari, mi sto riferendo al processo avviato dalla giunta Marino con la delibera 140, proseguito dal prefetto Tronca ed ora dalla giunta Raggi: un tuo commento – anche come candidata di Potere al Popolo – a questo approccio “ragionieristico” alla gestione dei beni collettivi che ormai pare essere una caratteristica di chi amministra Roma.

Il concetto è che una grande città come questa – ma vale anche per i piccoli centri – ha diverse realtà di autorganizzazione che sono fonte di cultura e di collaborazione tra i cittadini che non possono essere sfrattate e poi magari si va a finire come con palazzo Nardini che rischia di diventare un gigantesco albergo. Se ragioniamo in termini di economia diverse realtà non possono che essere messe per strada per essere sostituite sul territorio, all’interno delle sedi, magari da un McDonald… La protezione di quello che i cittadini offrono autonomamente alla collettività e la condivisione di questi spazi, invece della chiusura, è quello che rende una città vivibile. Un dispositivo antibarbarie, perchè la distruzione delle attività e la conquista da parte del profitto di tutto è l’assoluta barbarie”.

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