La tragedia di Genova ha riacceso il dibattito sui reali effetti che le privatizzazioni hanno generato rispetto agli asset strategici nel nostro paese.
L’attezione naturalmente si è concentrata sulla gestione delle Autostrade: il crollo del viadotto Polcevera pare da attribuire ad una carenza di manutenzione e di interventi, ed essendo un tratto autostradale la responsabilità potrebbe essere attribuita all’attività, od alla mancanza di attività, di Autostrade per l’Italia (cioè Atlantia spa, ex Autostrade spa, di cui principale azionista è la famiglia Benetton).
Al netto delle speculazioni e delle strumentalizzazioni politiche che anche in questo caso non sono di certo mancate, forse una immane tragedia come questa meriterebbe una analisi seria ed approfondita sui motivi che l’hanno innescata.
Ci sono due livelli di analisi, e quindi di prospettive di intervento: il primo è quello in cui agisce la magistratura, che valuterà i fatti, accerterà le responsabilità ed eventualmente individuerà e punirà i colpevoli.
Il secondo livello è politico, ed è quello in cui bisogna verificare se i macro sistemi di gestione di asset ed infrastrutture pubbliche rispondono alle esigenze di sicurezza ed economiche della collettività a cui dovrebbero essere rivolti.
E’ qui che storicamente in Italia abbiamo dei problemi, perchè sentenze di condanna rispetto a vicende del genere ci sono anche state; il problema è che poi eventi disastrosi che spesso portano con sé vittime continuano a ripetersi. Se ne potrebbe evitare qualcuno, agendo in modo differente da quanto si sta facendo? Quasi sicuramente si.
Tornando al disastro di Genova, ed al dibattito che nel bene e nel male ne è scaturito, il tema è: l’attuale gestione delle nostre autostrade garantisce sicurezza ed efficienza? La fase economico-politica e le conseguenti scelte dal quale è scaturio questo modello di gestione ha avuto effetti positivi?
Un contributo serio arriva, a nostro parere, da una relazione della Corte dei Conti risalente al 2010: “Obbiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche” (potete consultare e scaricare il documento qui)
Un lavoro di approfondimento che riguarda quasi esclusivamente gli effetti economici della grande stagione delle privatizzazioni partita alla fine degli anni ’80 e di fatto esaurita.
Telecomunicazioni, trasporti, banche, infrastrutture, industria: questi i settori principali in cui si è deciso di dismettere le partecipazioni pubbliche ed “andare sul mercato”.
Con quali effetti?
Dal punto di vista che ci interessa evidenziare, è interessante leggere alcune righe contenute nelle conclusioni del documento:
Gli effetti delle privatizzazioni sul benessere dei consumatori sembrano ancora più controversi. Lo sono, come si è visto, per quanto riguarda i servizi bancari. E lo sono per i servizi autostradali e delle utilities. In particolare, analizzando nel dettaglio i prezzi dei servizi erogati dalle utilities (acqua, energia, trasporti, telecomunicazioni), si osserva una dinamica dei prezzi molto accentuata soprattutto nei settori dell’acqua, del gas e delle autostrade, e una forte riduzione nelle telecomunicazioni. Le relazioni annuali delle Autorità Amministrative Indipendenti, peraltro, evidenziano come le privatizzazioni e l’attuale corso della presenza pubblica nei settori dell’energia e del gas non impediscano che le tariffe a carico di ampie categorie di utenti siano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti degli altri paesi europei, e ciò in ragione del permanere di situazioni di monopolio di rete, come nel caso della distribuzione del gas. A tal proposito, pur scontando gli effetti del più diretto impatto dell’andamento dei prezzi internazionali dei prodotti petroliferi, può meritare un approfondimento, da parte della competente Authority, il diverso più recente andamento, nell’ambito dello stesso settore (energia), delle tariffe del metano (in aumento) e di quelle dell’elettricità (in diminuzione). Così come meritano di essere approfondite le ragioni della continua lievitazione dei pedaggi autostradali, giustificata, oltre che dal 70% dell’inflazione reale (e non di quella programmata), dagli investimenti effettuati. Ancora meno soddisfacenti appaiono i risultati della privatizzazione delle banche per ciò che attiene al livello degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clientela, che da tutte le indagini anche di recente condotte risulta sistematicamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei. Naturalmente i prezzi rappresentano soltanto un aspetto, seppur importante, dell’erogazione di servizi. Altrettanto importante è la loro qualità, la cui valutazione avrebbe richiesto una serie di altre complesse ed approfondite analisi. I dati mettono comunque in luce un aspetto particolarmente critico della privatizzazione nel caso di alcune utilities regolate, che, aumentando strategicamente il debito, hanno visto rafforzato il proprio potere negoziale nei confronti di un regolatore che può aver concesso incrementi tariffari nell’intento di contenere i maggiori rischi di insolvenza.
Si tratta di un concetto estrapolato da una analisi molto ampia, che si concentra quasi esclusivamente sugli effetti economici. Ma qualche considerazione è possibile esprimerla, naturalmente.
La campagna di privatizzazioni ha attraversato un periodo lunghissimo (1985 – 2008): oltre 200 operazioni per circa 156 miliardi di euro di introiti. Si tratta della secondo programma di privatizzazioni più rilevante globalmente, dopo quello attuato in Giappone. L’obiettivo raggiunto è stato quello di ridurre di circa il 10% il debito pubblico, risultato però vanificato dall’incremento dello stesso debito di circa un quarto.
Gli effetti rispetto alla collettività sono stati differenti, molto variabili a seconda del settore di riferimento, ma il trend parla di un aumento di costi a prescindere dall’effettivo o meno recupero di efficienza.
Le performance sul mercato sono positive, in molti casi (a parte vicende clamorose come ad esempio quella di Alitalia), ma spesso ciò dipende dall’aumento delle tariffe al consumatore, non sempre giustificate dalla congiuntura economica e dagli investimenti realizzati.
E comunque, dovremmo sempre ricordare che si parla di servizi, spesso essenziali e rivolti inevitabilmente alla collettività.
Senza considerare la ricaduta occupazionale: l’ingresso in un mercato concorrenziale ed il conseguente adeguamento dei processi produttivi ha significato in molti casi un calo occupazionale.
Era il 2010: sarebbe interessante valutare la situazione – anche solo dal punto di vista finanziario – ad oggi.
Che qualcosa non stia funzionando, è sotto gli occhi di tutti, e non era necessaria un’altra tragedia per accorgersene.
Il Regno Unito, qualche mese fa, ha rinazionalizzato, temporaneamente, una tratta delle proprie ferrovie nazionali: i soggetti privati che le gestivano non avevano rispettato la concessione.
A chi sottolineava come la realtà del trasporto pubblico inglese potesse riassumersi spesso in “il pubblico si assume il rischio, i passeggeri pagano e le aziende fanno profitto”, il Segretario di Stato ain Trasporti rispose più o meno così: “Non possiamo aspettarci che le aziende si assumano responsabilità illimitate, altrimenti non farebbero offerte”.
Ecco, il problema sta tutto qui, forse: se parliamo di infrastrutture strategiche, di servizi essenziali, di sanità, di trasporto pubblico, di tutto quello che quotidianamente viene utilizzato da milioni di cittadini e che è indispensabile alla gestione quotidiana dell’esistenza, è possibile immaginare che chi se ne occupa abbia come primo pensiero il profitto? In un regime di mercato concorrenziale, però, funziona così. E privatizzare significa spostare aziende sul mercato, che è appunto concorrenziale.
Un ripensamento a questo punto sarebbe necessario, ma a due condizioni: deve essere serio, e non deve diventare l’ennesimo strumento di campagna elettorale.
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