L’incontro con le “parti sociali”, ieri al ministero dello Sviluppo, ha chiarito solo in parte il progeto governativo per risolvere l’ennesima crisi di Alitalia. Ma per come stanno messe le cose dentro il governo gialloverde, la soluzione prospettata sembra appartenere più a Di Maio – ormai all’angolo nell’esecutivo e anche nel M5S, dunque alla disperata ricerca di un “successo” da sbandierare – che non all’intero governo. Il che non è proprio il miglior viatico alle speranze che ancora nutrono i lavoratori.
Si è parlato si struttura societaria, non di progetto industriale, e questo è il limite insuperabile di ogni progetto di “salvataggio”. Vedremo poi perché.
Sul piano societario l’idea non sarebbe neppure negativa. Lo Stato è disposto a entrare nell’azionariato della newco, con una quota anche superiore al 50%, attraverso il ministero dell’Economia, “a condizione della sostenibilità del piano industriale e in conformità con la normativa europea”.
Fin qui si era parlato soprattutto di una conversione in azioni della cifra già spesa per il “prestito ponte” che ha fin qui permesso l’operatività della compagnia, che era in mani totalmente private. Ma in questo modo la quota non sarebbe stata superiore al 14-15%, In linea con i “paletti” europei (anche Air France e altre compagnie hanno un azionariato statale simile), ma senza soldi freschi per fare gli investimenti minimi necessari.
I partner industriali al momento sono due: l’americana Delta e la low cost greco-inglese Easy Jet. La prima dovrebbe garantire una maggiore apertura al traffico intercontinentale (quello più redditizio, nel traffico aereo), mentre la seconda è una garanzia, al contrario, di tagli a rotte e personale. Essendo specializzata nel corto-medio-raggio – ancora più di Alitalia, grazie alle scelte consapevolmente suicide dei vari management che si sono succeduti negli ultimi 30 anni – c’è infatti da attendersi una ovvia riduzione dei “doppioni” (tratte oggi coperte da entrambe le compagnie, ma in concorrenza tra loro).
Interessante anche il possibile ingresso di Ferrovie dello Stato, ancora di proprietà pubblica anche se ormai operativamente indistinguibile da una società privata orientata unicamente al profitto – che potrebbe teoricamente garantire sinergie più efficaci tra voli e rotaia. Al momento l’ok di Ferrovie è subordinato all’ingresso degli altri due partner privati.
Delta ed EasyJet sono in partita da oltre tre mesi, avendo presentato un’offerta formale alla fine di ottobre. All’inizio Delta si proponeva di entrare nella newco insieme ad Air France-Klm (20% ciascuna), ma le tensioni tra i due governi (per tutt’altre ragioni) hanno fatto naufragare il progetto.
L’idea di Delta punta comunque ad un’Alitalia un po’ più piccola, con una riduzione degli aeromobili da 118 a 110 e una forza lavoro di 9-10 mila lavoratori (e conseguenti 2-3 mila licenziamenti).
Il “buco” vero non è però finanziario: è l’assenza di un vero progetto industriale. Nel trasporto aereo i profitti veri si fanno con i voli a lungo raggio, quelli intercontinentali, mentre sul medio – l’Europa strettamente intesa e il Nordafrica mediterraneo – la concorrenza sleale, ma autorizzata, delle low cost costringe a viaggiare quasi in perdita.
E’ il segreto di pulcinella: le low cost non sono “più brave” delle compagnie di bandiera classiche. Le loro tariffe scontatissime su un certo numero di posti per ogni volo sono possibili solo grazie ai finanziamenti erogati da “consorzi territoriali pubblico-privati” interessati ad avere voli diretti sull’aeroporto a loro più vicino (il caso di Orio al Serio, in Italia, è un forat tipico).
Per “competere” efficamente, dunque, la nuova Alitalia avrebbe bisogno di aerei nuovi adatti ai voli intercontinentali, confermando o riacquisendo slot (permessi di atterraggio e decollo, forzatamente limitati per ogni aeroporto) negli scali più importanti del pianeta.
La situazione globale del settore non è al momento delle migliori. Lo testimonia la rinuncia del consorzio eruopea Airbus a costruire ancora il superjumbo A380, che uscirà di produzione tra due anni e dopo appena 10 anni. L’ultimo dei clienti importanti su questo tipo di veivoli era infatti Emirates, che non effettuerà altri ordini dopo quella data. Le ragioni? Troppo costoso, troppo ingombrante (diversi aeroporti hanno dovuto ingrandirsi per ospitarlo), dunque inferiore rispetto al concorrente di Boeing.
Con tutte queste incognite, perciò, l’iniziativa di Di Maio resta avvolta da una nube di dubbi. Ma una cosa è diventata chiara egualmente: nei settori strategici – e il trasporto aereo lo è, non solo per ragioni di “prestigio” – senza intervento pubblico non si può andare avanti. Il mercato, anche qui, ha fallito.
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