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Lotto marzo, studentesse e studenti romane/i in piazza «contro ogni genere di oppressione»

Studentesse e studenti delle scuole superiori romane scenderanno in piazza, domani venerdì 8 marzo, per sostenere lo «sciopero globale transfemminista» indetto da Non una di meno. E così, a una ventina di giorni dalla mobilitazione contro la maturità dello scorso 22 febbraio, ancora una volta gli iscritti a licei, professionali, alberghieri, ecc., si ritroveranno fianco a fianco a un pezzo importante del movimento sociale, specialmente in questo paese, per gridare la loro visione della lotta alla governance oppressiva dell’odierno modo di produzione capitalistico.

Si è scritto volutamente «una» lotta, per rendere il leit motiv che, a partire dal 30 novembre, sembra caratterizzare il livello della mobilitazione, quanto meno al livello cittadino: quello della volontà, e della presa di coscienza, che solo unendo le lotte e combattendo la loro frammentazione – come si legge nel comunicato, causata «dall’ideologia delle single issues» – si potrà tornare a ricoprire quel ruolo decisivo che la mobilitazione di massa ha avuto nella storia di questo paese.

Ma, come ricorda Gramsci, studio e militanza vanno a braccetto, ed è per questo che nel pomeriggio, alla Casa della Pace di Testaccio, si svolgerà un pomeriggio di formazione organizzato dal Collettivo Pilo Albertelli e dal Collettivo autorganizzato Ripetta – Pinturicchio, in cui Elisabetta Canitano (Ginecologia e Associazione Vitadonna), Michela Flores (Usb Roma) e Lucia Pera (Esecutivo Nazionale Usb) parleranno, sullo sfondo della condizione odierna, di sessismo e lotta per l’uguaglianza dei diritti per tutte e tutti.

Prima di “lasciare la parola” al comunicato, di seguito, scritto dai compagni di Osa, ci sembra necessario sottolineare come la spinta al ritorno a un orizzonte politico che possa definirsi realmente autonomo e di rottura, e cioè, autenticamente rivoluzionario, stia venendo proprio dalle nuove generazioni, ossia da quelle, come si dice solitamente, «nate nella crisi».

Le domande su cosa sia il femminismo e il transfemminismo, e la loro declinazione in una prospettiva di classe, oggi, fanno parte di un percorso di crescita imprescindibile per qualsiasi soggettività (figuriamoci per i più giovani) che abbia come obbiettivo il rovesciamento delle stato di cose presenti.

È solo da questo tipo di analisi, come di quella che segue, che si potranno cogliere quelle contraddizioni che pur attraverseranno lo sciopero di domani, a partire per esempio dall’adesione allo stesso di quel pezzo di società sia politica che “sindacale”, incarnata nel Partito democratico e nella Cgil, che sono state autentiche protagoniste dello smantellamento di quello stato sociale che per primo (ma non per ultimo) colpisce proprio le fasce più deboli della popolazione, nelle quali, come sappiamo fin troppo bene, ancora oggi, donne e giovani e la fanno loro malgrado da “padroni”.

Da domani, o meglio, dalla formazione di questo pomeriggio, non si riparte, dunque, ma ci sembra invece di poter intuire un altro passaggio di un percorso che, oltre che andare nella giusta direzione, acquisisce sempre maggiore solidità. Andare allora, consapevoli della sfida che ci aspetta e del tempo (lungo) di cui questa necessità. Per oggi, intanto, un passo avanti.

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L’ANTI-SESSISMO È LOTTA DI CLASSE

PERCHÉ SCENDIAMO IN PIAZZA L’8 MARZO

OSA aderisce allo sciopero femminista dell’8 marzo perché riteniamo sia giunto il momento di ripensare l’anti-sessismo in un’ottica di classe: per connettere le battaglie frammentate dell’ideologia delle single issue, per pensare la lotta per l’uguaglianza di genere come una lotta complessiva contro l’oppressione di tutti i generi, per pretendere il rispetto dei diritti sociali per tutte e tutti, contro un sistema politico-economico che, in quanto capitalista, pone l’oppressione del diverso come suo fondamento.

Lo sciopero indetto da Usb e altri sindacati di base va proprio in questo senso: unire le rivendicazioni di genere con quelle di classe. Come studenti conflittuali non possiamo non far sentire la nostra voce, mettendo però in luce anche le tante contraddizioni che il “femminismo” in salsa liberal porta con sé e che animano, anche e purtroppo, la piazza dell’8 marzo. 

Per esempio, ci sembra impossibile e incoerente scendere in piazza in difesa dei diritti della donna, come quello per l’aborto, mentre si appoggiano il finto-nuovo Pd di Zingaretti (come ultimo salvatore della “sinistra”), che di fatto hanno tagliato e distrutto sanità pubblica e diritti sociali in Italia come nel Lazio, aggravando così la disparità salariale tra uomo e donna e le discriminazioni sociali, culturali e sessuali.

Per questo, prendiamo parola per chiarire la nostra posizione sullo sciopero femminista, cercando di andare alla radice dei problemi e portando in piazza la nostra contrarietà al ddl Pillon, la difesa della legge 194 e della sanità pubblica, e il rifiuto della “femminilizzazione” del mondo del lavoro, una lotta complessiva contro lo sfruttamento e la precarizzazione della classe lavoratrice.

– DDL PILLON

Proposto lo scorso agosto dal senatore leghista Simone Pillon (uno degli organizzatori del Family day e forte integralista cattolico), questo decreto introduce delle modifiche in materia di diritto in famiglia, divorzio e affido dei minori che di seguito proviamo a riassumere:

Mediazione obbligatoria a pagamento. Ovvero, per evitare che i conflitti familiari arrivino in tribunale (un’istanza al tribunale rende generalmente il processo più breve e a costi limitati), viene introdotta la figura del mediatore a pagamento, il quale dovrà provare a risolvere le controversie «per salvaguardare l’unità della famiglia» (come scritto esplicitamente nel testo di legge). Questo ostacolerebbe il divorzio per il semplice fatto che aumenterebbe i costi della separazione, svantaggiando in partenza la condizione della donna, essendo questa, nella maggior parte dei casi, la parte economicamente meno stabile.

Equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari (almeno 12 giorni al mese con entrambi genitori e doppio domicilio). Il ddl Pillon non considera i diritti del minore e avvantaggia le figure genitoriali, più nello specifico, il genitore economicamente più forte, da un lato, non garantendo la flessibilità e l’elasticità richieste dalle normative internazionali a difesa dei minori, e dall’altro, per quanto riguarda l’assegnazione della casa familiare, mettendo al centro il principio di proprietà della casa stessa.  

Mantenimento secondo i tempi di affido. Oltre che il tempo, si prevede che anche il mantenimento sia ripartito tra i due genitori. Il decreto Pillon pretende cioè l’uguaglianza economica tra i genitori, che si verifica però inesistente nella realtà. Inoltre, non  tiene conto del gap salariale tra uomo e donna, e neanche del fatto che molte di quest’ultime perdono il lavoro dopo la maternità.

Privatizzazione della violenza. Infatti, il testo di legge impone soluzioni standard che non tengono conto delle diversità delle situazioni introducendo il ruolo del mediatore. La mediazione viene affidata obbligatoriamente a figure private e a pagamento, spesso senza nessuna conoscenza nell’ambito della violenza. 

Alienazione genitoriale (ovvero il comportamento alienante di uno dei due genitori per allontanare il figlio dall’altro genitore). Questo concetto, difficilmente verificabile nella realtà, viene utilizzato dalla Lega e dai partiti reazionari, soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, per screditare le donne che durante le procedure per il divorzio chiedono protezione a favore dei figli che non vogliono vedere i padri in quanto traumatizzati dai loro comportamenti violenti. Per questo motivo, la bi-genitorialità obbligatoria rischia di essere un pericolo se disgiunta da tutto il resto, anche quando questo significa non tenere conto del contesto di violenza. 

È evidente che il decreto Pillon influisce molto sulla scelta di divorziare, rendendola sicuramente più costosa a livello economico. Per divorziare, le donne hanno bisogno di un contratto stabile, per poi riuscire a mantenere da sole un figlio continuando a lavorare. Questo provvedimento, accompagnato da anni di distruzione dei diritti sociali e di precarizzazione del mondo del lavoro (in ultimo operata dal Pd con il Jobs Act), costringe le donne, in quanto parte più colpita dall’abbassamento delle tutele nei posti di lavoro, ad avere difficoltà nel divorziare, anche se in casi di violenza e abusi.

– LEGGE 194

La legge 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) è quella legge in vigore in Italia che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto, considerato un reato fino al 1978. 

Nel 1975 iniziarono manifestazioni e proteste a favore della campagna abortista (partiti in sostegno: Pci, Psi e altri minori; partiti contro: Msi, Dc), che portarono a una raccolta firme promossa dal Partito radicale con la collaborazione anche del Movimento di liberazione della donna, di Lotta continua, Avangurdia operaia e Pdup-Manifesto.

Il 22 maggio 1978 venne così approvata la legge 194, la quale consente alla donna, nei casi previsti dalla legge, di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla Ivg solo per motivi di natura terapeutica.

Il ginecologo può esercitare l’obiezione di coscienza. Tuttavia il personale sanitario non può sollevare obiezione di coscienza allorquando l’intervento sia “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”. Il Sistema sanitario nazionale è tenuto inoltre ad assicurare che l’Ivg si possa svolgere nelle varie strutture ospedaliere a questo deputate, e quindi, qualora il personale assunto sia costituito interamente da obiettori, dovrà supplire a tale carenza in modo da poter assicurare il servizio, per esempio tramite trasferimenti di personale.

Ma, a quarant’anni dalla sua adozione, il pieno accesso all’interruzione volontaria di gravidanza come prevista dalla legge resta ancora da garantire. Nel 2017, solo il 59% degli ospedali italiani prevedeva il servizio di interruzione volontaria di gravidanza, in particolare per quanto riguarda i casi successivi al terzo mese. Il 41% sarebbe pertanto non in conformità con quanto previsto dalla legge. 

All’interno del personale medico italiano, il numero degli obiettori di coscienza è in media del 70%, mentre in Gran Bretagna è del 10%, in Francia del 7%, e addirittura dello 0% in Svezia. Il totale degli obiettori è aumentato del 12% negli ultimi dieci anni, arrivando a punte di oltre il 90% in Molise, Trentino-Alto Adige e Basilicata.

Come Opposizione studentesca d’alternativa, scendiamo in piazza a difesa della legge 194 e contro i partiti reazionari, come i fascisti e la Lega (sempre più “Nord”), che ancora oggi vogliono negarci il diritto all’aborto; ma non solo, la nostra rabbia è rivolta anche contro la finta sinistra, che da un lato scende il piazza con Nudm, mentre dall’altro privatizza la sanità pubblica (rendendo così impossibile alle donne di usufruire del Servizio sanitario pubblico).

– FEMMINILIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO

Per femminilizzazione del mercato del lavoro, come descritto dall’Opuscolo dell’Unione sindacale di base (intitolato Donne sull’orlo di una crisi di numeri), si intende l’estensione a tutta la classe lavoratrice delle caratteristiche che appartengono il lavoro femminile: più precarietà, più ricattabilità, salari più bassi, aumento dell’età pensionabile, ecc. 

Alcuni dati: la componente femminile italiana è, cifre alla mano, più istruita di quella  maschile (63% di donne ha almeno un titolo di istruzione secondario contro il 58,8% di uomini), ma le donne faticano a trovare un lavoro (le percentuali tra le donne giovani, fascia 20-34 anni, sono di 11 punti percentuali inferiori a quelle degli uomini). La partecipazione femminile al mercato del lavoro è ancora scarsa (49,5% contro quella maschile del 68,5%), la disoccupazione femminile è più alta e il divario retributivo offre uno scenario preoccupante.

A queste condizioni si accompagnano fenomeni come le dimissioni in bianco, il part-time involontario, le molestie sui luoghi di lavoro o, per ultimo, il “diritto” a rimanere al lavoro fino al giorno prima di partorire, caratteristiche tipicamente applicate alle donne ma utilizzate per abbassare in generale il livello salariale e le condizioni di lavoro di tanti oggi nel nostro paese. In altre parole, le donne, così come i lavoratori migranti, sono utilizzate come strumento di diminuzione generale delle tutele e dei diritti.

Per questo motivo, come OSA pensiamo che per lottare contro il sessismo (così come contro il razzismo) occorre innanzitutto ricordarci che dietro a queste tendenze ci sono  motivazioni politiche e di sistema, e cioè, la creazione e il mantenimento di intere fasce di popolazione in povertà, disoccupate, precarie e senza diritti. Il sessismo non va affrontato solo come un problema morale o privato, ma va compreso all’interno di una generale riorganizzazione del modo di produzione capitalistico, che va contrastato con il conflitto di classe, con la lotta per il welfare e le tutele per tutte e tutti.

Per tutti questi motivi, venerdì 8 marzo scenderemo in piazza e ricorderemo anche la vera nascita della festa della donna: le piazze in Russia delle donne che chiedevano «il pane e la pace».

Per anni si è infatti creduto che questa data facesse rifermento al rogo di una fabbrica di camicie di New York, dove persero la vita 134 donne, mentre essa si riferisce alla manifestazione (delle donne appunto)  contro lo zarismo di San Pietroburgo del 1917. 

Una manifestazione che, assieme a quelle degli operai e dei contadini, diede vita alla rivoluzione di Febbraio in Russia: perciò, è la storia che ci insegna che  l’anti-sessismo è lotta di classe!

 

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