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Ripartire dal «Patto della fabbrica», ossia da chi la “fabbrica” ce l’ha

Nell’articolo pubblicato martedì a firma di Stefano Porcari, i rappresentanti dei sindacati confederali CgilCislUil – che qui scriviamo in una sola parola perché oramai, e non certo da oggi, indivisibili nello smantellamento del diritto del lavoro – hanno più volte fatto riferimento alla necessità di ripartire dal «Patto per la fabbrica» siglato il 9 marzo dello scorso anno assieme alla Confindustria.

«Il Patto per la fabbrica va applicato», le parole del neo numero uno in Cgil, Maurizio Landini, riportate nell’articolo.

«Dobbiamo passare alla gestione del Patto per la fabbrica e dobbiamo anche andare oltre», ha dichiarato Annamaria Furlan, leader della Cisl.

Ripartire dai «molti punti del Patto per la fabbrica», implementandone «anche altri», l’indirizzo preannunciato da Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria.

Ma quali erano gli obiettivi, e dunque cosa si vuole «applicare», con la ripresa di quel documento? Di seguito, proveremo a indicare quei punti dirimenti che – attenzione spoiler! – dimostrano la sostanziale continuità della futura gestione Cgil targata Landini con quella dell’ultimo trentennio, posizionandoci perciò ben lontani da quella narrazione che paventa un ritorno del sindacato, parallelamente a quello della “sinistra” (previa sua unificazione salvifica), dalla parte di chi ne avrebbe più bisogno.

Una prima menzione la merita il titolo. Questo, nonostante la vulgata lo riporti in maniera fraudolenta, recita infatti Patto della (e non per la) fabbrica. Le parole sono importanti, a volte anche decisive, e se anche non ci sembra questo il caso, è comunque indicativo il tentativo di slittamento di senso per mezzo di una preposizione che rimanda a un possesso (della), verso un’altra che invece può indicare un sostengo (per).

Entrando nel merito, come si legge nel documento il concetto fondamentale è quello di «tradurre la ripresa in crescita economica». Ora, già a partire da qui, si potrebbe vacillare nel pensare che, al cambiamento dello condizioni oggettive – l’Italia è in recessione “tecnica” e le previsioni per l’anno in corso vengono continuamente riviste al ribasso – si possa ripartire da una programmazione che non tenga conto del cambio di contesto in cui ci si trova ad agire.

Tuttavia, questo sarebbe corretto se non tenessimo a mente che non è certo a partire dalle congiunture economiche che sono state operate le scelte negli ultimi anni nei confronti del mondo del lavoro. In quest’ottica, il disegno “europeista” è chiaro e l’assenso non negoziabile, in nessuna delle sue parti.

Comunque sia, per la traduzione del principio in pratica, il poker padronale scrive che «al centro del dibattito» vanno i temi della qualità e della quantità del lavoro, del rapporto di questo con la scuola, della formazione e della ricerca e dello sviluppo. Da qui – a parte il passaggio sulla necessità di mettere in moto quegli «strumenti di politica economica mirati ad accompagnare la ripresa» (non più possibile, per un singolo Stato, nell’Unione europea) – tre sono gli «obiettivi centrali»:

i) «Condividere una strategia di sviluppo, coordinata e coerente con le trasformazioni in atto» mediante l’«estensione e la qualifica degli investimenti privati» («il rilancio di quelli pubblici», finché vige il vincolo del pareggio di bilancio, è mera utopia), «anche attraverso una più estesa e qualificata contrattazione di secondo livello». Tradotto: bisogna garantire più protagonismo al settore privato, promuovendo la contrattazione in deroga ai Ccnl, la quale permette alle imprese di negoziare direttamente coi singoli lavoratori, sottraendo, ancora di più, forza contrattuale alla parte del Lavoro e incentivando l’espansione del welfare aziendale (con particolare attenzione per la previdenza complementare in ottica di «crescita dimensionale dei fondi» pensione).

ii) «Un mercato del lavoro più dinamico ed equilibrato che favorisca l’inserimento al lavoro dei giovani e delle donne». Come dire, lo smantellamento del diritto del lavoro, che più ha colpito donne e giovani (ma che si sta espandendo alle altre figure in maniera preoccupante), deve essere perpetrato perché solo così si potrà “favorire” il loro inserimento nel mondo del lavoro. E poco importa se è proprio la flessibilità, in coppia con l’arretramento dello stato sociale, ad aver marginalizzato quelle figure in termini di stabilità e sicurezza lavorativa, da cui deriva quella della vita.

iii) «Rafforzare un modello di relazioni sindacali (…) che sostenga la competitività dei settori e delle filiere produttive, nonché il valore e la qualità del lavoro». E cioè, bisogna sostenere la competitività delle imprese, perché in condizioni di competizione globale (altro che “globalizzazione”!), sono le sole a poter garantire il benessere della società. Una sintesi di prospettive neoliberiste, con il ruolo decisivo giocato dai sindacati, concepiti però nel modello americano, ossia come gestori, per conto delle imprese, del naturale conflitto che emerge tra queste e lavoratori/lavoratrici.

Per far questo allora è necessario ostacolare la presenza dei sindacati di base in sede di contrattazione, e «dare piena attuazione all’intero Testo Unico sulla rappresentanza che ha fissato i principi di un sistema di relazioni sindacali democratico, orientato alla prevenzione dei conflitti». Avete letto bene, CgilCslUil devono prevenire i conflitti per garantire a Confindustria «un modello di “governance adattabile”».

E ancora: rafforzare il nesso impresa-scuola, e cioè più spazio agli interessi privati nell’educazione delle nuove generazioni, per migliorare il matching (incontro) tra domanda e offerta di lavoro, il cui mercato, sempre più «dinamico» (versione edulcorata di “flessibile e precario”) ha bisogno di forza-lavoro in continua formazione e  disponibile alla mobilità lungo tutto lo stivale, anche se con poco preavviso.

Insomma, verrebbe da dire, niente di nuovo sotto il sole – neanche la retorica con cui si cerca di indorare la pillola – per un mondo del lavoro che continua a perdere, anno dopo anno, quelle garanzie faticosamente conquistate nel lungo ciclo di lotte operaie.

In questo smantellamento, nel nuovo ciclo Landini-Zingaretti non c’è soluzione di continuità col più recente (e neanche troppo) passato.

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