Come raccontato già stamattina, il delirio di governo ha partorito come al solito anche un’orgia di fake news (il potere è del resto la fonte primaria dei falsi d’autore).
Tra queste, una che dava quello di Luciano Vasapollo tra i possibili nomi per un ministero di tipo economico-produttivo. Persino qualche giornale mainstream ha preso per plausibile la voce, e dunque ecco qui quanto abbiamo da dire in proposito.
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«La politica deve dettare tempi e modalità dell’economia, non viceversa»
Nel desolante quadro della malainformazione italiana, che arriva addirittura a giocare con il totoministri capita anche di sentire che tra questi vengono strumentalmente ipotizzati anche vere e forti voci fuori dal coro. In modo particolare in ambito economico dove sembra essere in vigore una sorta di dittatura neoliberista.
Infatti, a intervenire nei vari dibattiti sulla formazione del governo giallo – rosa pallido o giallo-blu firmato Unione Europea – vediamo sempre e comunque sostenitori di questa fallimentare e ottusa teoria economica. Possono declinarla in vari modi, provare a camuffarsi, ma sempre neoliberisti sono.
Nella giornata di ieri, invece, abbiamo sentito il vociare fake news su un una provocatoria “chiacchiera ‘ che metterebbe fra i papabili ministri della economia il marxista Vasapollo; che dire? finalmente!
Abbiamo potuto ascoltare un po’ di buon senso per risolvere i problemi degli sfruttati, o sempre la stessa musica per giocare al massacro stella pelle degli sfruttati? Sicuramente vale la seconda se si parla dell’impossibile nomina di Luciano Vasapollo. Professore di Politica Economica presso l’Università La Sapienza di Roma e storico esponente della sinistra di classe sindacale e politica comunista.
Ma perché questa ipotesi è fantascientifica e provocatoria ?
All’ordine del giorno di questo costituendo governo vi è la manovra di bilancio in corso di approvazione ed in merito alla questione il professor Vasapollo ha sempre denunciato che «dietro alle manovre finanziarie ci sono i bisogni i drammi delle persone sfruttate. Necessita urgentemente ripristinare un’Europa in cui le politiche economiche si rivolgano ai bisogni materiali diretto e immediati dei lavoratori e disoccupati e senza casa. La politica deve dettare tempi e modalità dell’economia, non viceversa».
Luciano Vasapollo ha sempre evidenziato nei suoi studi e interventi che l’attuale Unione Europa è segnata da un drammatico «vuoto di democrazia».
Aggravato dal fatto che dietro le politiche economiche neoliberiste imposte dalla «dittatura dell’euro», «c’è un vero e proprio massacro sociale, dai precari alla classe media, per il bene della finanza».
Come ben spiegato nel libro – PIGS la vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea – l’alternativa c’è. «Pensiamo che i Paesi dell’area mediterranea, che sono i più complementari tra di loro e che subiscono maggiormente questa crisi, possano mettere in moto movimenti sociali e dei lavoratori per una spinta al cambiamento e, perché no, un’alternativa all’Unione Europea».
Magari prendendo ad esempio l’ALBA latinoamericana. Un’unione tra Stati sovrani basata sulla solidarietà e non sulla competizione. Dove l’interesse supremo è quello di migliorare le condizioni di vita dei popoli. Non produrre profitti sempre maggiori per l’avido capitale finanziario.
Se Il neoliberismo di destra e di sinistra produce miseria e povertà allora è ora di nazionalizzare.
A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento cruciale per l’economia di un parse a sviluppo eco-socio-compatibile, hanno sicuramente contribuito le polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che ha palesato il fallimento totale della privatizzazione, in particolare delle autostrade italiane.
È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato, l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una siffatta “teoria” economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena devastazione economica e sociale.
Di un tema centrale e ineludibile, quale le nazionalizzazioni, per qualunque forza politica voglia risollevare le sorti del paese e le condizioni di vita della classe operaia e delle larghe masse popolari abbiamo deciso di discuterne con Luciano Vasapollo. E‘ ineludibile ormai discuterne come atto primario di un vero “governo del cambiamento”, una discussione a tutto tondo in cui si approfondisce la discussione sulla necessità della rottura della gabbia dell’Unione Europea e si avanza una proposta politica che mira ad un area alternativa Euro/Mediterranea, sganciata dai dispositivi di dominio, rapina e sudditanza della borghesia continentale europea.
La politica di aggiustamento permanente, stabilita nell’UE come politica unica, rappresenta un problema politico enorme per qualsiasi forza, anche non necessariamente rivoluzionaria, ma semplicemente riformista, che, senza mettere in discussione il quadro dell’accumulazione capitalista, voglia migliorare le condizioni di inserimento del proprio paese nella divisione del lavoro internazionale ed europea.
A partire dall’estate 2007, con il connesso crollo del mercato del credito mondiale, abbiamo assistito a un rigenerato interventismo statale in tutti i paesi a capitalismo maturo, indirizzato però non al rilancio della produzione e dell’occupazione a pieno salario e pieni diritti nell’economia reale, ma al salvataggio del sistema bancario e finanziario. Tali operazioni, che puntano soltanto a ridare ossigeno al sistema bancario, innalzano pesantemente il deficit fiscale dei paesi centrali, sia per l’entità delle somme impiegate, sia per la diminuzione degli introiti fiscali, dovuta alla decelerazione degli investimenti produttivi causati dalla riduzione del credito alla produzione, che di fatto blocca i processi di crescita dell’accumulazione capitalista.
Di questo non si parla, nelle proposte che sono sul tavolo dei capi di governo europei. Come non si parla dell’effetto più pernicioso della moneta unica, che non ha nulla a che fare con lo squilibrio fiscale o finanziario, ma con il fatto che consente a un’economia fortemente esportatrice (Germania) di vendere a buon mercato (rispetto al tasso di cambio che avrebbe una valuta nazionale tedesca) e costringe a vendere prodotti costosi a paesi con strutture produttive fortemente importatrici (inoltre in una valuta rivalutata).
Se infine si applica la stessa moneta a paesi in cui l’accumulazione del capitale si fonda sull’esportazione e a paesi strutturalmente importatori, la politica monetaria non è in grado di conciliare le priorità di alcuni (che necessitano di una moneta stabile così da avere accumulazione a lungo termine basata sull’esportazione) e di altri (che hanno bisogno di svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento interno).
Quindi, la politica applicata difenderà inevitabilmente gli interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori dell’Europa centrale (Germania e i suoi satelliti occidentali: Finlandia, Olanda, Austria e Belgio), rispetto a quelli dei paesi deboli della periferia mediterranea (Portogallo, Italia e Grecia e Spagna), i PIGS.
Quindi l’unica opportunità rimasta a paesi come la Spagna, il Portogallo o l’Italia – e talvolta anche la Francia – per riequilibrare il proprio conto estero è… salari più bassi. “Condannati per sempre”, perché la riduzione salariale è il miglior modo per far sì che investimenti inefficienti in termini internazionali ottengano guadagni nello spazio nazionale, cioè per accumulo e concentrazione di capitale in settori a bassa produttività.
Non si tratta del semplice rilancio di una parola d’ordine, ma di un vero e proprio programma di medio periodo per la Nazionalizzazione dei settori strategici della produzione.
C’è voluta la catastrofe del ponte Morandi a Genova per riportare all’ordine del giorno – del dibattito pubblico e dell’agenda politica – l’autentico disastro sociale prodotto dalla lunga stagione di privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio industriale ed infrastrutturale del nostro paese.
Una sequenza che ha pesantemente segnato il corso economico del capitalismo italiano almeno negli ultimi 25 anni provocando non solo una deregolamentazione del lavoro e dei diritti ma anche un peggioramento della quantità e della qualità dell’offerta dei servizi pubblici ed essenziali.
Infatti – volendo periodizzare questa fase di ristrutturazione del Sistema/Italia – possiamo datare dal periodo di vigenza del governo Amato (1993) l’avvio della lunga serie di privatizzazioni che hanno modificato il volto e la struttura del capitalismo tricolore, unitamente al complesso delle relazioni produttive, economiche e normative dell’Azienda/Italia.
Abbiamo vissuto una intera fase della storia economica in cui soggetti finanziari famigerati come Société Générale, Rothschild, Crédit Suisse, JP Morgan, Goldman Sachs (ossia la cupola dei poteri forti del capitalismo internazionale) hanno fatto ‘il bello ed il cattivo tempo’ cannibalizzando la struttura industriale italiana, dettando le condizioni della sua svendita, le conseguenti politiche anti-operaie da applicare verso i lavoratori interessati da questi processi ed imponendo la linea di condotta da seguire la quale – seppur con approcci differenziati – è stata supinamente accettata ed applicata supinamente dal susseguirsi dei vari esecutivi di governo nel corso di questi decenni.
Del resto il consumarsi di alcune vicende simbolo degli ultimi anni – Alitalia, Ferrovie, Sip/Telecom ed Ilva in primis – hanno riproposto uno scenario economico in cui vige, unicamente, la logica del profitto a tutti i costi, l’abbandono di ogni parvenza di clausola sociale, l’assenza di una qualsivoglia forma di programmazione con una idea di sviluppo generale utile per la collettività ed il trionfo del feroce totem ultraliberista della “centralità del mercato”.
Il tutto è avvenuto in una congiuntura politica dove i processi di centralizzazione e concentrazione dei settori più forti della borghesia continentale (annidati attorno al nocciolo duro dell’Unione Europea) hanno favorito e spinto le dinamiche di spoliazione, ridimensionamento e declassamento dell’economia del nostro paese in direzione di una generale svalorizzazione della forza lavoro e della sua qualità salariale, normativa e professionale.
Un processo scientificamente pianificato che è stato funzionale alla nuova divisione del lavoro e delle sue filiere lungo tutta la Eurozona in un contesto oggettivo di accelerazione di tutti i fattori della competizione internazionale tra blocchi e potenze globali.
Il conflitto sociale e la forza del movimento operaio allora crescevano e, quando l’ammortizzatore dello Stato sociale e delle nazionalizzazioni non sono più serviti, il grande capitale nazionale e transnazionale, quindi anche gli Stati Uniti, hanno giocato in Italia l’arma del terrorismo e del fascismo. Ricordiamo la stagione delle stragi impunite, i tentativi di colpo di Stato. Non c’è un capitalismo buono e uno cattivo. Il capitalismo usa i suoi strumenti in funzione dei rapporti di forza. Quando i rapporti di forza erano positivi per i lavoratori il capitale ha dovuto concedere le nazionalizzazioni e lo Stato sociale. Una volta sconfitto il movimento operaio, ha operato una ‘normalizzazione’, cancellando tutte le conquiste strappate attraverso decenni di lotta.
In questo scenario quale è stato il ruolo dell’Unione Europea, una costruzione basata sul neoliberismo?
Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito dall’ortodossia neoliberale. L’UE non è nata come luogo dei popoli o per assicurare ai popoli una maggiore democrazia. Questa sta funzionando esattamente per come è stata concepita. La struttura di quella che possiamo definire la gabbia europea è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”.
Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione.
I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro.
Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto“centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud.
I paesi cosiddetti PIGS sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro.
È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo.
La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area.
Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale. Ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo.
Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso.
L’uscita dall’euro è una opzione politica, più che economica, e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio.
Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.
Riveste, a questo proposito, particolare importanza – per i suoi auspicabili risvolti politico/pratici nei confronti delle lotte popolari e dei movimenti sociali – il Programma di Alternativa di sistema: uscire dalla UE, dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea, recentemente adottato dalla Piattaforma Sociale Eurostop.
Il quale individua nelle lotte per imporre la Nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia un punto programmatico serio e costitutivo per quell’indispensabile accumulo delle forze e strutturazione di un nuovo movimento operaio e popolare, in grado di imporre un’altra economia ed una nuova configurazione geo/politica dei popoli del Mediterraneo. Anche per contrastare, nonché scalzare, le nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati. Affermando insomma un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo con il “globalismo” borghese, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.
E allora bisogna chiedersi in maniera reale e determinata se il costituendo nuovo governo compirà almeno alcuni timidi passi in discontinuità con il passato. Ma il nostro quadro politico istituzionale è molto contraddittorio.
Altro che prendere in giro i lavoratori con la “ bufala“ di Vasapollo come ministro, oggi esigiamo come misura necessaria per risollevare le sorti economiche dell’Italia e della popolazione piegata da oltre 25 anni di neoliberismo sfrenato, una politica economica di alternativa di sistema.
I nostri compiti rimangono molto chiari e determinati nel contrapporvi alle politiche di massacro sociale con le lotte , rafforzando il tessuto conflittuale di classe e sempre vigileremo affinché il governo operi per migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice e della popolazione italiane ci organizzeremo come sempre contro ministri e forze di governo Che non hanno a cuore le sorti del paese né buone relazioni internazionali.
Il governo giallo blu che si sta costruendo sotto comando del grandi manovratori della Ue è quantomeno schiacciato sulle posizioni guerrafondaie
E questo paese non ha opposizione istituzionale, ma solo sociale. E non vogliamo certo dimenticarci che il PD è il primo colpevole di tutte le leggi liberticide, delle privatizzazioni e delle concessioni alle multinazionali. Pensiamo alle cosiddette liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. I criminali bombardamenti effettuati contro la Serbia quando a capo del governo italiano c’era Massimo D’Alema.
Questi dirigenti, che hanno svenduto e distrutto la sinistra italiana, hanno spalancato le porte del paese alla Troika. Non hanno alcun legame con la classe operaia e lavoratrice, perché rispondono solamente agli interessi di determinati settori del capitale internazionale.
Questo è un paese che attualmente è senza governo ed opposizione. L’unica opposizione è quella delle strade, l’opposizione è quella dei pochissimi mass-media liberi e indipendenti, e quella di sindacati come l’USB, dei movimenti sociali e di forze come Potere al Popolo, che cercano di organizzarsi e darsi una prospettiva. Una prospettiva che insieme a Eurostop e altri movimenti indichiamo nell’uscita da Euro e NATO, per la creazione di un’ALBA Euromediterranea, che abbia come modello l’esperienza latinoamericana.
Ai tavoli per il costituendo governo stanno parlando davvero di programma e non di poltrone? E allora ecco una proposta minima di programma da parte di chi lo sfruttamento lo vive ogni giorno direttamente sulla propria pelle con lacrime e sangue.
Costruire un’area monetaria tra paesi con configurazioni produttive strutturali più omogenee è una alternativa possibile per raggiungere l’autonomia politica richiesta da un progetto di costruzione di democrazia partecipativa a carattere socialista, anche in una fase di transizione possibile.
L’alternativa possibile e necessaria richiede la coniugazione immediata di un percorso tattico rivendicativo interno alle lotte e al conflitto sociale con la prospettiva strategica di potere del superamento in chiave socialista del modo di produzione capitalista; un “Programma Economico Sociale di Controtendenza”, quindi una maggiore qualificazione e sofisticazione nelle richieste e nelle analisi dei lavoratori e dei loro rappresentanti, dei cittadini e delle loro organizzazioni. Si tratta cioè, di distribuire l’accumulazione valoriale a chi l’ha creata e a chi è stato impedito di entrare in un mondo del lavoro a pieno salario e pieni diritti.
1. La moneta comune SUCRE MEDITERRANEO, associata ad una politica di piena occupazione e con produzioni solidali e eco-socio-sostenibili può essere uno strumento per un’alternativa per Paesi che, vista l’esperienza della semi periferia Euro-mediterranea, chiedono immediatamente di non essere parte del gioco di quella trappola che presuppone l’utilizzo politico-monetario dell’Euro per tutti i paesi con una base produttiva dipendente e meno sofisticata tecnologicamente, che quindi per forza di cose sono sottomessi ad una necessità d’importazione massiccia di prodotti proveniente dai paesi più avanzati del centro e nord dell’Europolo.
2. La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.
3. Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.
4. La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
5. La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia Europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile. Questi settori strategici sono le attività produttive che stanno ottenendo maggiori benefici, come risultato della gestione delle risorse naturali non rinnovabili sulla base di una intensa socializzazione dei costi che non vengono imputati come costi interni (i costi di inquinamento, la distruzione di risorse naturali ecc.), o comunque tali settori stanno ottenendo forti risultati positivi perché stanno beneficiando della privatizzazione di reti di comunicazione e tecnologie, la maggior parte delle quali si sviluppano con risorse pubbliche.
6. È assolutamente irrinunciabile invertire il flusso delle risorse, dal capitale verso lo Stato e la società, dalle rendite finanziarie verso i salari diretti e indiretti. Questo cambio radicale nella politica fiscale può stimolare le risorse necessarie in una prima fase per iniziare un vasto programma di rilancio economico e di miglioramento della qualità della vita. Bisogna capire questo nesso indissolubile fra mutamenti delle linee dello sviluppo e ruolo locale e centrale dell’industria pubblica e dell’economia pubblica in genere.
7.Il cambiamento tecnologico in un modello di sviluppo autodeterminato a compatibilità socio-ambientale può rappresentare un progresso tecnico e sociale se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano degli imprenditori e del capitale. E’ importante il recupero tecnologico in settori per il nostro Paese tradizionali e lo sfruttamento della adattabilità alle esigenze ed alternative che si presentano di volta in volta, che sono possibili solo con un serio governo pianificato di indirizzo dello sviluppo che non può prescindere dal fondamentale ruolo pubblico nei servizi essenziali e nei settori strategici dell’economia.
8.Tassare finalmente nei modi diversi il capitale, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, caricando gli stessi oneri gravanti sulla forza lavoro che va a sostituire, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria; tutto ciò significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.
9. La prospettiva deve essere quella di incanalare il risparmio verso investimenti produttivi, capaci di creare lavoro, di creare ricchezza non misurabile esclusivamente in termini di PIL, ma in termini di crescita di socialità, di ricchezza sociale ridistribuita pienamente al lavoro di civiltà e di umanità. Riaffermando così, e rilanciando il ruolo di uno Stato garante delle esigenze collettive e degli equilibri sociali, con controlli reali sull’evasione fiscale e con investimenti di tali entrate fiscali che pongano al centro gli interessi dei lavoratori e i bisogni socio-economici dei cittadini.
10. Quello di cui hanno bisogno le economie periferiche Europee per uscire dall’attuale marasma è una politica di creazione massiccia di posti di lavoro a tempo indeterminato, a pieno salario e pieni diritti realizzato anche attraverso la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario. Gli enormi bisogni sociali non soddisfatti (dalla casa, ai servizi e attenzioni per le persone a vario titolo non autosufficienti, i servizi sociali centrali e locali, dalla salute alla formazione all’educazione continua, ai servizi di gestione e cura dell’ecosistema ecc.) possono essere coperti nel tempo con un programma sostenuto di formazione e creazione di posti di lavoro
Quindi nazionalizzazioni, sviluppo autodeterminato e democrazia economica a carattere socialista.
E ricordando la bellissima serie televisiva ‘ la casa di carta ‘ la improbabile e provocatoria fake news di Vasapollo ministro la rimando al mittente strillando che “ NOI SIAMO SEMPRE RESISTENZA “ al canto sempre più ribelle e rivoluzionario di “ Bella ciao “ !!
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Manlio Padovan
E “Bandiera rossa”!
Francisco
Qualcuno che si sarà imbattuto in questa roba qua:
“Voglio essere ancora più chiaro. La classe media che non arriva a fine mese è la nuova povertà, è il nuovo proletariato. Il piccolo imprenditore che lavora 12-13 ore al giorno e non arriva a fine mese, ma resta in piedi perché ha intere famiglie di suoi lavoratori che sopravvivono grazie a lui è la nuova povertà, il nuovo proletariato. Fa parte di quel blocco sociale, per usare un termine gramsciano, di ribellione che non ha ancora una coscienza di classe. Ma la rivolta organizzata dai Gilet gialli dimostra che qualcosa si sta muovendo e Potere al Popolo per tutte queste ragioni sarà in piazza con loro.”
Francesco Santoianni
“Persino qualche giornale mainstream”? Veramente l’unico a pubblicare questa “notizia” (già ripresa in un precedente articolo di Contropiano) è stato l’autorevolissimo sito farodiroma.it in un articolo senza fonti che si direbbe scritto solo per dare lustro a Vasapollo. Chissà da chi è stato ispirato.