A quanto pare, anche la miserevole “classe politica” e l’ancor più miseranda “informazione” mainstream si sono accorte che esiste una trattativa tra i paesi dell’Eurozona per la riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, altrimenti noto come “fondo salva stati”.
Nel nostro piccolo ce ne siamo occupati più volte, spesso costretti ad attingere alla stampa internazionale, visto il silenzio pudico di quella nostrana, capace di parlarne soltanto a favore senza spiegarne il contenuto.
Ora Salvini l’ha “scoperto” a fini scopertamente elettorali, parlando di “fondo ammazza stati”, e chiedendone conto a Conte e al governo attuale. D Maio prova a non farsi spiazzare e chiede un vertice di maggioranza sul tema, ricordandosi soltanto ora della “centralità del Parlamento” in queste materie. Il Pd tace, come sempre quando c’è in ballo la subordinazione all’Unione Europea.
La domanda è semplice: il governo (nelle persone del presidente del Consiglio e del ministro dell’economia) ha accettato o no un “accordo” con gli altri paesi europei, che ora bisognerebbe “chiudere” nella forma definitiva?
La risposta, sotto i mille distinguo formali, è “sì”, ma senza firmare nulla.
Come si usa nelle discussioni inter-statuali sulla riforma di un trattato, prima si raggiunge un accordo di massima tra tutti i paesi (è prevista l’unanimità), poi si articola dettagliatamente – grazie al lavoro degli sherpa tecnici – e infine si sottopone alla firma definitiva dei governi.
I quali dovrebbero presentare e spiegare quel trattato, ognuno al proprio Parlamento, per ricevere l’autorizzazione alla firma. Sappiamo benissimo che quasi mai è andata così, in Italia. Il trattato di Maastricht, il più importante perché avviva la strutturazione istituzionale attuale della UE, fu firmato da Giulio Andreotti a Camere sciolte. Praticamente senza mandato (anche se c’era stata una ricca discussione parlamentare da cui erano emersi qualche dissenso – a sinistra (Napolitano, nel Pci, era addirittura contrario al varo dell’Euro) – e parecchie perplessità.
La seconda domanda, decisiva per stabilire chi sono i “traditori della patria” che hanno dato l’ok a proseguire nella riforma del Mes, è: quando è stato pronunciato quel “sì” provvisorio?
Anche qui la risposta è chiara: il 21 giugno scorso, nel corso della riunione dell’Eurogruppo (che riunisce i ministri dell’economia, pur non essendo previsto da nessun trattato europeo).
E qui le cazzate di Salvini e Di Maio escono allo scoperto. Il 21 giugno entrambi erano vicepremier nello stesso governo, e nessuno dotato di senno può credere che Giuseppe Conte e Giovanni Tria, allora “ostaggi tecnici” delle due forze della maggioranza, possano non aver informato i due capi assoluti di quanto stava maturando a Bruxelles.
Rimane in piedi dunque giusto l’ipotesi che entrambi, piuttosto deboli sul piano economico, possano non aver capito di cosa si stava parlando. Ma entrambi disponevano di un folto gruppo di viceministri e sottosegretari “tecnici”, posti a guardia dei due “senza tessera”, in grado di farglielo capire nei dettagli: Bagnai, Borghi, Castelli, Garavaglia, Bitonci, Villarosa, ecc.
L’ipotesi più probabile, insomma, è che l’avessero saputo e capito benissimo, fin dai mesi (2018) in cui c’era da “convincere” la Commissione ad accettare una manovra 2019 contenente due misure “atipiche” rispetto ai parametri di Bruxelles (quota 100 e reddito di cittadinanza). Secondo la normale logica della trattativa, l’ok europeo alla manovra è arrivato in cambio di un “sì” di massima rispetto alla riforma del Mes e qualche altro dettaglio.
Un quadro “blindato”, per il futuro, tanto da far decidere a Salvini di darsela a gambe in pieno agosto.
Di cosa tratta il “nuovo Mes”?
In effetti, come avevamo capito da soli, diventa un fondo “ammazza paesi deboli”. Sono stati costretti ad ammetterlo europeisti di chiara fama come Giampaolo Galli, e persino il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (la riforma del Mes potrebbe implicare “grossi rischi” in particolare “una spirale perversa di aspettative di default che potrebbe essere una auto-realizzante”).
In pratica vengono cambiati la governance del Mes (dalla mediazione intergovernativa ad un organismo “tecnico” che procede all’applicazione delle regole in automatico) e i parametri da rispettare per accedere agli aiuti.
Secondo l’allegato III della bozza la “linea di credito precauzionale e condizionata” per il Paese in difficoltà è disponibile solo se tutte le seguenti caratteristiche sono rispettate:
– deficit non superiore al 3% sul Pil,
– un budget strutturale in linea con il benchmark,
– rapporto debito Pil sotto il il 60% “o una riduzione nel differenziale a tale soglia nella misura di un ventesimo all’anno nella media dei due anni precedenti”.
Inoltre è richiesta “l’assenza di gravi vulnerabilità del settore finanziario che mettano a rischio la stabilità finanziaria del membro Mes”.
L’intento dichiarato è in teoria quello di “garantire” ogni paese dell’eurozona da possibili attacchi speculativi, fornendo un “prestatore di ultima istanza” (privo però della possibilità di intervenire “illimitatamente”, essendo dotato di soli 2.600 miliardi). Ma le condizioni imposte, e prima elencate, fanno sì che proprio i paesi che potrebbe finire (o sono già finiti) nella morsa della speculazione dei “mercati” sarebbero impossibilitati ad accedere agli aiuti (pur contribuendo alla formazione del fondo comune).
Insomma: se si chiede “aiuto” al Mes senza avere quei parametri (e non ce li ha praticamente nessuno, salvo la Germania e qualche altro paese del Grande Nord), il rifiuto diventa automatico ed espone ancor più quel paese agli attacchi speculativi.
A meno che non accetti di sottostare a un supervisione della Commissione tale per cui la scrittura della “legge di stabilità” – la principale legge dello Stato, che decide annualmente come reperire le risorse e come utilizzarle – viene completamente delegata a Bruxelles (oggi viene “concertata” passo dopo passo, da aprile fino al 31 dicembre).
Abbiamo dunque un doppio danno, da questa “riforma” del Mes: a) maggiore e non minore esposizione ai rischi di mercato, b) totale perdita dei residui di “sovranità” sulle proprie risorse (visto che con la legge di stabilità di decide la composizione della spesa pubblica e la politica fiscale).
Con il contorno non secondario di una crisi indotta anche per il “nostro” sistema bancario. Che infatti reagisce come prevedibile. Proprio stamattina il presidente dell’Abi (l’associazione delle banche italiane), ha avvertito con la massima chiarezza: «Noi siamo liberi di comprare titoli sovrani, non abbiamo un vincolo di portafoglio e in questa fase abbiamo circa 400 miliardi di debito pubblico italiano (nei bilanci delle banche, ndr). Il problema è che cosa fa la Repubblica italiana per tutelare il debito pubblico. Non si tratta di debito delle banche, e se le condizioni relative al debito pubblico alterano o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico, non li compreremo più». Lo spread salirebbe immediatamente in cielo, per la felicità della grande finanza multinazionale…
Parlare di “governo nazionale”, a quel punto, sarebbe un puro eufemismo…
Come vedete, la miseria della “classe politica” è tale che invece di preoccuparsi del collasso progressivo del paese, accentuato dalla governance europea, ci regala il penoso spettacolo di chi prova a cavalcare anche quel collasso a fini personali o di consorteria.
E poi vengono anche a chiedere “vota per me”…
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