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Nella faccenda del Mes emergono problemi di legalità, logica e democrazia

Proponiamo, come spesso ci capita di fare, un articolo che compare su una testata molto lontana da noi per visione, valori e riferimenti politici. Ciò nonostante, proprio questa lontananza rende più utile il contenuto specifico dell’articolo. Che è poi relativamente semplice: in tutta questa vicenda del “nuovo Mes” (il Meccanismo Europeo di Stabilità), al di là degli stessi – ma strategici – dispositivi economici e finanziari, emerge la natura dittatoriale dell’Unione Europea.

Dittatoriale, non solo “poco democratica”. Persino usando i criteri e i valori liberali (di cui il pessimo Karl Popper è uno dei pilastri sul piano teorico). Non ci sembra un dettaglio da poco. E certo può essere efficacemente usato in tutti i confronti/scontri con quegli imbecilli democrats che di dicono “europeisti” e “anti-sovranisti”.

E’ vero, infatti: l’europeismo è un’ideologia dittatoriale che nega la sovranità popolare perché afferma la sovranità delle imprese e della finanza multinazionale.

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Nella vicenda del Mes alcuni punti stanno emergendo con chiarezza esemplare, specie dopo l’audizione di Roberto Gualtieri alla Commissione parlamentare.

1. il Governo, prima di “impegnare” il Paese con gli altri partner europei, avrebbe dovuto, a mente dell’articolo 5 comma 2 della legge 234 del 2012, tener conto degli “atti di indirizzo adottati dalle Camere”. Nel remoto, e improbabile, caso in cui ciò non fosse stato possibile, il Governo avrebbe dovuto “riferire tempestivamente alle Camere, fornendo le appropriate motivazioni della posizione assunta”. Nel nostro caso, non è stata fatta né l’una né l’altra cosa. All’università “di legge”, si direbbe che è stata violata una legge.

2. oggi, a cose fatte, il Parlamento dovrebbe conservare la piena disponibilità di pronunciarsi (pro o contro) sul trattato del Mes; e ciò è stato riconosciuto dallo stesso Gualtieri davanti alla succitata Commissione, laddove egli ha testualmente dichiarato: “come il Parlamento aveva richiesto, comunque il testo finale sarebbe stato sottoposto alla valutazione del Parlamento”.

3. il punto secondo è semplicemente un proforma. Ma in verità non conta nulla, così come non conta nulla il Parlamento italiano. Lo ha candidamente ammesso lo stesso Gualtieri quando ha affermato di ritenere, in ogni caso, il testo inemendabile.

Ora, capite bene che cominciamo ad avere grossissimi problemi di legalità, di logica e anche di democrazia.

Di legalità perché un esecutivo – per di più se nato per iniziativa, e supporto, di un Movimento che della legalità fa il suo primum movens – non può collocarsi in modo tanto palese al di là del recinto di quanto la legge prescrive. Perché la legge non è uguale (solo) per (tutti) i cittadini, ma anche (e soprattutto) per le istituzioni da cui quei cittadini sono rappresentati.

E a tal proposito, come suol dirsi, “carta canta”. Una risoluzione (nr. 6-00076) approvata dal Parlamento, il 19 giugno 2019 di quest’anno, recitava papale papale: “Si impegna il Governo a non approvare modifiche che prevedano condizionalità”. Non serviva l’Accademia della Crusca per rettamente interpretare, e conseguentemente applicare, il significato delle parole di cui sopra.

Quanto ai problemi di logica, dobbiamo seriamente interrogarci se per caso – ossessionati come siamo dal rispetto pedissequo e meticoloso (talora persino ottuso) delle “regole” e dei “parametri” – non stiamo perdendoci per strada qualcosa di ben più prezioso: la logica, appunto, e quindi, in senso lato ma non troppo, la razionalità e la giustizia. È assurdo sostenere, come ha fatto Gualtieri, che il testo finale sarà sottoposto alla votazione del Parlamento e poi confessare che, comunque, tale testo non potrà mai essere cambiato.

Dire che un Parlamento è preservato nella sua intangibile facoltà di dire sì o no a una legge (baluardo teoricamente inespugnabile di una democrazia con la D maiuscola) e poi aggiungere che quello stesso Parlamento dovrà comunque “assoggettarsi”, è qualcosa che non si può sentire sul piano della logica. Ciononostante, la colpa non è di Gualtieri.

Infatti il ministro, paradossalmente, ha detto il vero. Per come è oggi architettata la Ue, e per come sono (già) disegnati gli Stati uniti d’Europa di domani, i parlamenti nazionali sono destinati a divenire inessenziali e ad adempiere a una funzione meramente coreografica. Potranno dire la loro, in teoria; ma non conteranno nulla, in pratica. Monsieur le Commissaire, les jeux sont faits. I giochi sono fatti – in alte cupole, e in altre stanze – da soggetti a cui sono (preventivamente) riservate tutte le decisioni dirimenti.

Il che ci porta all’ultimo tema sul tappeto, che è poi anche il più importante: quello della emergenza democratica. In un sistema in cui un Governo può, senza grossi problemi, agire oltre i perimetri di una legge dello Stato, e quindi contra legem, in cui un ministro può fare dichiarazioni marchianamente contraddittorie, e quindi contra logicam, che fine farà la democrazia? Qui ci può aiutare Karl Popper il quale, nel secolo scorso, ebbe il merito di puntualizzare alcuni aspetti del “gioco democratico” da noi dati, troppo spesso, per scontati.

La “democrazia”, diceva Popper, non si identifica solo con il suffragio universale e con il governo della “maggioranza”. La sua vera essenza risiede nella possibilità, per i governati, di poter controllare i governanti. Così, il nostro sintetizzava il concetto: “Se gli uomini al potere non salvaguardano quelle istituzioni che assicurano alla minoranza la possibilità di lavorare per un governo pacifico, il loro governo è una tirannia”.

Forse, sotto le mentite spoglie del Mes, c’è un’urgenza ancora più impellente di quanto abbiamo finora immaginato.

 * da  Il Fatto quotidiano

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