L’integrazione nell’orbita del modello produttivo della U.E., nelle sue filiere sovranazionali, viene, dunque, “metabolizzata” nei territori inglobati nei processi di valorizzazione, attraverso una richiesta crescente di autonomia legislativa, fiscale, amministrativa. Un processo con effetti endogeni comunque significativi: la rimodulazione del modello di produzione capitalistico risponde alle urgenze delle competizione, che si irraggia nell’intero sistema di relazioni e quindi anche all’interno di quelle stesse aree territoriali e produttive che, se possono essere rappresentate correttamente come organiche all’apparato di valorizzazione della U.E., all’interno manifestano disomogeneità e diseguaglianze sociali anche considerevoli.*
Sono le contraddizioni del modo di produzione capitalistico che nella varietà dei modelli di accumulazione e al livello di sviluppo delle forze produttive riproducono e approfondiscono le contraddizioni e le diseguaglianze. Sottolineiamo, di passaggio, come nella stessa Germania la questione sociale stia progressivamente emergendo, mettendo a nudo l’insostenibilità, anche nel paese core della U.E, della condizione dei territori dell’Est e la precarietà sociale e lavorativa.
Lo sfibramento del sistema di relazioni politico e istituzionale di cui l’autonomia differenziata è la risultante, assume il carattere non di un processo distorsivo, distorsivi sono semmai gli effetti, all’interno delle relazioni centro-periferia, minimizzate come recuperabili con qualche intervento infrastrutturale, bensì necessarie per la sopravvivenza economica all’interno di un sistema di competizione aggravato dalla crisi del centro strategico tedesco.
Si apre anche la “questione settentrionale”
E’ proprio il “piano inclinato” della competizione che nell’area milanese e del Nord-Est in generale suona un campanello d’allarme (Fonte Sole 24) sull’inadeguatezza dei processi formativi scolastici e il gap crescente che rischia di diventare irrecuperabile, con gli altri territori della base produttiva allargata teutonica. Ed è ancora in Lombardia che perde corpo un nuovo passaggio sull’autonomia differenziata legata alle necessità economico produttive dell’area metropolitana milanese: esistono aree del business quali l’immobiliare-finanziaria che richiedono ancora più autonomia; oppure, le proposte di maggiore autonomia ,sempre nell’ambito dell’autonomia differenziata, per Venezia la cui gestione turistico-finanziaria è fenomeno di dimensioni globali che non può prescindere da un grado ancor maggiore di autonomia.
La richiesta di autonomia differenziata travalica gli ambiti del Nord-Est in cui è stata “incubata” , le aree metropolitane del Centro-Sud, a partire da Roma alle prese con un nuovo modello di governance che possa sottrarla al declino in cui ogni giorno sembra sprofondare; oppure, Napoli le cui risorse e potenzialità sono ostaggio di una visione tutta proiettata sul Nord-Europa.
E’ evidente che l’autonomia differenziata è una precisa condizione posta dalle componenti della borghesia dei territori per la gestione delle sfere del proprio intervento, è un processo di ricomposizione degli interessi della borghesia territoriale intorno all’asse dominante del polo europeo e nelle più generali dinamiche della competizione tra poli geo-economici. (su questo vedi l’interessate lavoro “Disuguaglianze nello sviluppo territoriale al Nord Italia: una chiave per combattere l’autonomia regionale” a cura di Potere al Popolo.
Autonomia differenziata e nuova questione meridionale
Ciò che viene delineandosi è, dunque, una nuova configurazione economico-produttiva delle aree territoriali in relazione alle incessanti sollecitazioni della competizione, vitali per la propria sopravvivenza e riproduzione sociale. La costruzione del polo economico-finanziario della E.U., come abbiamo provato ad illustrare, è un processo interno alla competizione inter-capitalistica, che riversa le sue urgenze competitive sugli stati membri ed in particolare sulle arre territoriali direttamente coinvolte nella sua piattaforma economico, produttiva, finanziaria. In questa spirale competitiva diffusa in ogni livello del polo della U.E., che la richiesta di autonomia gestionale-amministrativa ed economica- finanziaria delle aree territoriali del Nord-Est trova alimento.
Le possibilità offerte dalla riforma del Titolo V della Costituzione all’estensione delle competenze regionali a temi cruciali per la competitività territoriale – tutela e sicurezza del lavoro, commercio con l’estero, istruzione, ricerca scientifica e tecnologica, governo del territorio, infrastrutture, previdenza, immigrazione ecc. – con l’attribuzione di trasferimenti crescenti per miliardi di euro, possono definitivamente sancire sul piano istituzionale i rapporti tra Stato ed Enti territoriali. La tanto sollecitata rivoluzione copernicana nei rapporti tra centro e periferia sembra adombrarsi, mettendo in evidenza il ruolo delle componenti della borghesia dominante, interne al triangolo territoriale – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna – fornendo, altresì, un “punto di attracco” alla transizione indeterminata del nostro sistema politico-istituzionale sempre più impastato di tecnica della governance rispetto al governo politico.
Aspetto poco considerato nel quadro di questa trasformazione del sistema di relazioni istituzionali è la relazione tra il procedere di forme di autonomia, che ormai nelle proposte in campo ben poco hanno a che fare con il decentramento amministrativo e il federalismo fiscale, e la tendenza alla regolazione autoritaria dei processi sociali, come sembra dimostrare da ultimo la riforma Costituzionale rivolta alla riduzione dei componenti le assemblee elettive di camera e senato, e la crescita delle richieste di elementi di presidenzialismo, possibile prossimo passaggio, nell’ordinamento repubblicano.
E’evidente che il magma di contraddizioni che accompagna ogni fase storica di transizione come quella che stiamo attraversando, in cui la sfera politica ed istituzionale, riadegua i propri rapporti con un modello di valorizzazione/accumulazione divenuto sovranazionale non è un’operazione neutra, ma definisce i propri contenuti di classe, espressi dal blocco sociale dominante con una modificazione dei rapporti sociali e politici. La rivoluzione passiva esposta da Gramsci nell’analisi delle trasformazioni dell’Italia post I guerra mondiale, con l’affermarsi del blocco agrario-industriale e l’elaborazione della questione meridionale come condizione imposta per la funzionalità del modello di sfruttamento, si ripropone il tutta la sua vitalità metodologica per l’indagine del blocco sociale dominante nell’attuale fase della competizione tra poli imperialisti.
La “riforma” del Titolo V della Costituzione è, a ben vedere, una assunzione in ambito istituzionale dei rapporti di forza tra le classi e all’interno della stessa classe dominante, con l’affermazione delle condizioni giuridico-formali per una nuova fase del suo dominio. L’assunzione della Unione Europea come orizzonte di riferimento dell’apparato industriale e finanziario equivale ad una ulteriore marginalizzazione del meridione dai territori a diretto traino delle piattaforme economico produttive collocate nei paesi core della U.E. Il nuovo passaggio rappresentato dall’autonomia differenziata, che non a caso, vede come attore protagonista la stessa componente politica, la sinistra europeista, già responsabile della riforma del Titolo V, è obiettivamente la fine della questione meridionale come tema nazionale. Il processo di disarticolazione del sistema paese in aree territoriali regionali e città metropolitane, attraverso un processo di autonomizzazione delle loro relazioni, pur nella formalità di pari condizioni di accesso tra regioni alle funzioni previste per dall’autonomia, le dispone in modo tale che l’affermazione delle prerogative proprie di ogni territorio rende problematico un comune riferimento al sistema paese.
Ancora una volta la lezione di Gramsci sul piano del metodo si afferma con prepotente attualità: l’alleanza operai e contadini non solo rappresentava il blocco sociale della nuova soggettività di classe, ma l’affermazione della questione meridionale come elemento strutturale del processo di emancipazione nazionale: non una questione tra le altre ma la rappresentazione delle diseguaglianze, certo sociali, ma anche territoriali prodotte dal capitalismo. La collocazione del nostro paese nelle gerarchie della U.E., al pari degli altri paesi mediterranei Grecia, Spagna e anche Portogallo, è chiaramente subalterna ai paesi dominanti il processo di integrazione. La pretesa delle componenti del blocco dominante delle regioni del Nord-Est di un ruolo di rilievo nel contesto della U.E., deve fare i conti con il paradosso di uno stato centrale reso più debole proprio dalle spinte centrifughe provocate dal processo di costruzione della U.E..
Allora, in un quadro di inevitabile confusione in cui il dato strutturale della costruzione della U.E., al di là di tutte le evidenti contraddizioni, continua a farsi largo, con la sempre più netta fisionomia imperialista, individuare nelle filiere della valorizzazione che attraversano i paesi del Sud-Europa e del Mediterraneo le alleanze per un nuovo blocco sociale è un processo politico indispensabile per dare corpo ad una ipotesi di rottura con il sistema di diseguaglianze sociali , fondamento di ogni processo capitalista.
Anche qui la lezione di Gramsci: l’impossibilità “della via capitalistica” per la soluzione della questione meridionale, si riafferma nella necessità della rottura delle relazioni del polo imperialistico europeo. (quarta ed ultima parte)
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