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Mettiamo a frutto la crisi. Manifesto per la riconquista popolare della città

Con la ripresa di molte attività lavorative emerge dirimente la questione dei trasporti pubblici. Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente sono più di 5 milioni i lavoratori pendolari in Italia che ogni giorno si spostano con i treni o altri mezzi pubblici per lavoro. A questi si aggiungono 2.7 milioni di persone che usano la metropolitana nelle sole città di Milano, Roma, Napoli, Torino, Genova, Brescia e Catania. Tra questi, più della metà sono residenti nelle regioni del nord. Non c’è invece ancora un dato aggregato rispetto al trasporto pubblico su bus e tram.

Dei 4.5 milioni di lavoratori tornati ai posti di lavoro da ieri, il problema della gestione del sistema di trasporto diventa centrale sotto diversi punti di vista.

Da un lato la questione della gestione dei mezzi urbani ed extraurbani, e di tutte quelle misure che i comuni stanno mettendo in atto, che se da un lato impongono l’uso della mascherina e il rispetto delle distanze di sicurezza a tutela degli utenti e degli autisti, dall’altro non saranno mai sufficienti a garantire l’efficienza del servizio: fin tanto che il servizio non verrà potenziato con più corse e più autisti a turnarsi, si creeranno sempre enormi file alle fermate!

Dal momento infatti che gli autisti non hanno il potere di controllo su quanta gente salga ad ogni fermata, ancora una volta il modello proposto dalle istituzioni si basa da un lato sull’intensificazione dei controlli e delle multe da parte delle forze dell’ordine, e dall’altro lato al “buon senso individuale” delle persone che dovranno quindi decidere se arrivare tardi a lavoro saltando una o due corse, o rischiare la propria salute e quella degli altri, e salire su quel mezzo.

Dall’altro lato, non proprio secondaria in un momento in cui ci siamo tutti resi conto dell’enorme scontro in atto tra capitale e natura, c’è anche la questione ecologica. A fronte delle problematiche e del livello di rischio legato alla gestione dei mezzi pubblici, in questa fase l’uso del mezzo proprio (per chi ce l’ha e può usarlo) diventa di fatto il mezzo più sicuro per spostarsi e questo ha già dato i primi segnali, nella giornata di ieri, di intasamento delle tangenziali nelle grandi città e di lunghe file di auto incolonnate nelle arterie principali delle città. Questa modalità di trasporto, in ripresa e amplificata da ieri in tutte le grandi città, potrebbe vanificare in pochi giorni gli effetti benefici del lockdown sulla qualità dell’aria e dell’ambiente.

Da più punti di vista il dibattito sulla città e sul trasporto pubblico cittadino ritorna quindi alla ribalta. L’occasione è ghiotta per chi pensa alle piste ciclabili e ai futuri investimenti su mobike e monopattini, soluzioni ecologiche e utili per brevi spostamenti primaverili-estivi, ma che sappiamo bene celare un altro nuovo business di speculazione e svendita di servizi che dovrebbero essere pubblici ma molto spesso sono privati.

C’è chi pensa che la responsabilità individuale farà si che tra ritmi di lavoro scaglionati sarà possibile diminuire la pressione sui mezzi di trasporto pubblici, e c’è chi invece pensa che questa sia l’occasione per rivedere radicalmente gli elementi della pianificazione dell’ecosistema urbano secondo regole ragionate, ora più che mai necessarie, che rendano la mobilità davvero sostenibile per chi la vive tutti i giorni.

In questo articolo, pubblicato dal Gruppo Urbanisti perUnaltracittà del Laboratorio politico di Firenze, ci vene ricordato bene come le nostre città siano da anni programmate per servire il turismo e i flussi finanziari più che i cittadini, con cui dobbiamo tutti fare i conti. Questa, in sostanza, è e sarà una fase delicata ma estremamente importante per rilanciare la battaglia per il diritto alla città e per invertire la rotta che si sta imponendo da anni nei nostri territori, per riportare i nostri ambienti, urbani e non, al servizio di chi li vive e non di chi li sfrutta.

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Mettiamo a frutto la crisi. Manifesto per la riconquista popolare della città

Guppo Urbanistica perUnaltracittà www.perunaltracitta.org

Alla fine della “fabbrica del turismo” resta una Firenze esangue. Esito (inimmaginabile, per come si è manifestato) di un’economia di rapina che ha sfruttato i corpi, il lavoro, il quotidiano, lo spazio. Una città per decenni depredata in nome della competitività e dell’attrattività globale, della rendita immobiliare e dei profitti privati, mai redistribuiti.
La crisi del ciclo economico rende ineludibile la riappropriazione sociale e politica della città.

Un passaggio epocale che libera gli spazi urbani, emancipandoli dal vincolo mercantile. La dimensione “pubblica” della città ridiviene, allora, terreno di scontro e di nuova progettualità.

La riappropriazione passa attraverso alcune, imprescindibili, tappe: riconquista dello spazio pubblico, di vie, piazze, giardini ed edifici collettivi, ambito precipuo della politica e della socialità; ripubblicizzazione dei servizi: trasporti, rifiuti e acqua in primis; liberazione del Comune dalla colpa del debito, anche tramite il depennamento delle grandi opere, inghiottitoio di denaro pubblico ben altrimenti impiegabile; revoca del Piano delle alienazioni del patrimonio immobiliare pubblico.

Nella Firenze del dopo-virus gli abitanti hanno il potere di immaginare e pianificare i luoghi di vita.

È perciò ineludibile procedere verso un’abbondanza immaginativa e desiderante, e lasciarsi alle spalle il cappio dell’austerità. Quell’austerità, causa suprema di impoverimento delle città dove gli edifici pubblici si svendono al massimo ribasso. Dove le pubbliche piazze si gestiscono e si disciplinano come cosa privata. Dove il governo delle trasformazioni urbane è affidato alle multinazionali e risiede – ben saldo – in mano privata.

È perciò ineludibile, innanzitutto, il rifiuto del modello urbano, securitario e segregante, fondato su recinti, zone rosse, Daspo.

È il tempo di mettere in opera le alternative elaborate negli anni dalle realtà attive sul territorio, divenute oggi largamente desiderabili.

Tali alternative sono state sistematicamente ignorate dai governanti, il cui vuoto immaginativo ha portato la città allo sfascio economico. I piani urbanistici che essi hanno partorito, modellati per sostenere la speculazione immobiliare e finanziaria, sono da gettare al macero.
Firenze non è sana, se la Piana è malata.

La nuova configurazione della città e della sua bioregione avviene nel segno della conversione ecologica. È urgente rivitalizzare le relazioni ecologiche, garanzia di salute ambientale e potenza rigenerativa. La prospettiva ecosistemica implica: conferire fertilità agli ambiti agricoli periurbani e urbanità alle aree periferiche; sopprimere la gerarchia centro-periferica tramite il riordino territoriale incardinato sui sistemi naturalistici; costellare la conurbazione di luoghi centrali ad alta vocazione civile e sociale, e di aree ad alta vocazione rigenerativa dell’ecosistema, connesse da un ripensato sistema di mobilità pubblica e adeguata ai luoghi.

Gli edifici pubblici, fulcro della riorganizzazione urbana a partire dai rioni.

Inalienabili, i grandi complessi pubblici sono da ritenere inseparabili dal corpo della città, che ne trae vitalità. Tali complessi, rimodellati per molteplici esigenze collettive, fanno sponda a nuove relazioni e a nuovi bisogni. Forniscono metri cubi di compensazione a fronte della mancanza di spazi, di alloggi e dell’esiguità strutturale dello spazio privato.

E come un organismo – in cui le parti svolgono all’occorrenza diverse e molteplici funzioni – la città diviene ridondante.

In caso di nuova pandemia, i grandi ambienti delle ex caserme, trasformati per destinarvi funzioni culturali o sociali, sono facilmente riconvertibili in locali ospedalieri o di supporto alle scuole. I corpi dell’edificio già destinati ad alloggi militari accoglieranno “alloggi volàno” per chi vive il disagio abitativo, o, se necessario, per contagiati pandemici.

Nuove “maisons du peuple” possono trovare posto in edifici collettivi. Per la loro configurazione architettonica, le Poste di via Pietrapiana, ad esempio, sono atte a fungere da casa della cultura, con sale per assemblee ad uso della cittadinanza, tanto ricercate nell’avara Firenze.

Case popolari a contrasto della rendita.

Le case popolari sono un caposaldo nel riequilibrio delle disparità socio-economiche. Nel centro imborghesito e desertificato, e nelle periferie, ex conventi, ex caserme, ex ospedali possono essere riconvertiti in alloggi pubblici, frammisti ad attrezzature di servizio.
L’ex ospedale militare di San Gallo si confà per posizione e conformazione ad accogliere alloggi residenziali pubblici: un’occasione per sperimentare modalità di autocostruzione e autogestione del processo edilizio. È imprescindibile bloccarne la vendita.

La riconquista procede per progetti e conflitti.

La riappropriazione urbana è accompagnata da un dispiegarsi di “micropolitiche”, procede per conflitti e progetti, provocati da soggetti collettivi e plurali. Avanza per pratiche sperimentali messe in atto da soggettività di movimento, di cui Firenze è stata un esempio storico con i “comitati di quartiere” del post-alluvione 1966.

Laboratori spontanei, collettivi di autogestione e altre forme autorganizzate metteranno al lavoro gli spazi comuni, poiché è inevitabile che la riappropriazione sociale riparta proprio dai beni pubblici e comuni, dalla base materiale, dal territorio.

Costruire un’alternativa ecosistemica per Firenze – urbana e rurale, ma anche locale e globale – significa mettere in opera desideri, alimentare l’immaginazione. Inventare e riscoprire nuovi e antichi modelli di relazione tra i viventi. Tra l’umano, il non umano, e i luoghi che contengono la vita.

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