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Sul Recovery Fund urge una calmata… meglio fare due conti

La proposta della Commissione europea sul Recovery Fund sembra abbia determinato uno stato di euforia collettiva nel nostro paese, quasi come se si trattasse della soluzione a tutti i problemi che abbiamo da anni e che sono stati tragicamente aggravati dall’attuale emergenza sanitaria.

Non che i soldi promessi siano nulla e neanche vogliamo sopravvalutare le critiche di un centrodestra che invece propone una sorta di improbabile impegno nazionale, quasi un “doniamo l’oro allo stato” di fascista memoria.

Si tratta però di fare due conti, di capire bene di che cosa si tratta e soprattutto se questi provvedimenti siano sufficienti a tirarci fuori dal pantano nel quale siamo finiti.

Per prima cosa è indispensabile sottolineare che ancora non si è del tutto in grado di valutare tecnicamente la proposta della Commissione europea perché non sono noti tutti i passaggi, le condizioni e i numerosi e complessi aspetti tecnici che dovrebbero accompagnare il provvedimento.

Proviamo comunque ad evidenziare alcuni aspetti fondamentali.

1. Presupposto fondamentale è che bisogna sottrarre la retorica alla sostanza del provvedimento. I soldi veri non sono quelli in prestito (250 mld) ma quelli a “fondo perduto” (500 mld). I 250 mld, se richiesti, saranno da restituire e l’unico vantaggio sarà quello di farlo con bassi interessi e in tempi medi.

2. La trattativa sulla proposta della Commissione sarà difficile e l’opposizione di quattro stati (Olanda, Austria, Svezia, Danimarca) potrà trascinare altri paesi in una trattativa lunghissima i cui esiti sono dubbi perché ognuno dei 27 stati membri gode del diritto di veto. Sicuramente si arriverà ad una mediazione nella quale già si prevede un diverso equilibrio tra aiuti a fondo perduto e prestiti e l’imposizione di notevoli condizioni per i paesi che beneficeranno di tali provvedimenti.

3. La proposta prevede che i 750 miliardi siano reperiti sul mercato (quindi senza che la BCE stampi nuova moneta) e che siano inseriti nel bilancio pluriennale dell’Unione europea. Questo comporta che i tempi non siano brevi: normalmente l’approvazione del bilancio UE dura di solito due anni. Vista l’emergenza si farà probabilmente più rapidamente, ma prima dell’anno prossimo non ci sarà nulla di concreto: potrebbe esserci soltanto qualche anticipo ma si tratta di una decina di miliardi suddivisi per i 27 paesi.

4. Altra conseguenza del fatto che il provvedimento è inserito nel bilancio pluriennale UE è che i finanziamenti saranno erogati su specifici progetti europei/nazionali approvati dalla UE e quindi condizionati da essa. Inoltre saranno erogati per rate successive: magari non nei sei anni 2021-2027 ma sicuramente in tre o 4 anni.

5. Oltre a ciò si deve considerare che per tale impegno finanziario l’Unione europea prevede una copertura in parte attraverso nuove tasse (si parla di tasse “ecologiche” e di far pagare di più i grandi gruppi multinazionali della comunicazione, del commercio on line, ecc.) e in parte aumentando dall’1 al 2% del PIL europeo il contributo dei singoli paesi. E’ evidente che quest’ultima misura, aggravata anche dall’uscita del Regno Unito dalla UE, oltre a “incattivire” i paesi più ricchi e quelli che pagano di meno, comporta anche il fatto che ad esempio, l’Italia che paga attualmente poco più di 12 mld annui,vedrebbe aumentare il proprio contributo a 24 mld annui.

6. Da considerare inoltre che le condizioni che saranno imposte agli stati per usufruire dei 500 miliardi complessivi saranno certamente abbastanza rigide sia per la scelta dei progetti da finanziare che dovranno essere decisi congiuntamente, sia soprattutto per le riforme che si richiedono ai singoli stati. E quando si parla di riforme, per l’Italia si sa che questo può voler dire nuovi tagli, minor welfare e più privatizzazioni.

Detto ciò e ribadendo che ancora nulla è certo e non si conoscono particolari, condizioni e soprattutto non sappiamo quali modifiche usciranno dalla lunga mediazione che si effettuerà nei prossimi mesi, possiamo dire che i circa 82 miliardi a “fondo perduto” che si dice spetterebbero all’Italia potrebbero essere in parte ridotti e comunque dovremo contribuire con ulteriori 10-12 miliardi annui al bilancio UE che passa dall’1 al 2%.

Questo vuol dire che se gli 82 miliardi (o quelli che in misura minore saranno decisi dopo la mediazione) saranno suddivisi non per i 6 anni che vanno dal 2021 al termine del bilancio pluriennale (2027) ma almeno in quattro trance annuali (se va bene), stiamo parlando di circa 20 mld annui.

Da questi dobbiamo però sottrarre i circa 10 mld annui di nuovi contributi per 7 anni alla UE che continueremo a pagare anche dopo e che non saranno certo redistribuiti ai paesi, perché serviranno come garanzia delle risorse che la UE recepirà dal mercato per l’intera operazione.

Ora se pensiamo che dall’inizio dell’emergenza sanitaria il governo ha stanziato già più di 80 mld e che sicuramente ne dovrà impegnare almeno altrettanti per i prossimi dodici mesi, è facilmente comprensibile che un contributo netto di più o meno 7-8 miliardi annui per i prossimi 4 anni non è cosa da gettare alle ortiche, ma non è neanche la soluzione ai nostri problemi economici e di bilancio.

Se poi calcoliamo che la ripresa non sarà certo rapida e comporterà un rapporto debito/Pil che dall’attuale 134,8 si attesterà tra 150 e 200 nei prossimi anni, gli interessi sul debito aumenteranno, riducendo ancor più il margine costituito dagli eventuali aiuti europei.

Concludendo, ci sembra che l’euforia e la retorica che si sta costruendo intorno alla proposta della Commissione europea non abbia ragion d’essere. Si tratta sicuramente di una “boccata d’ossigeno” che però non sarà sufficiente a rilanciare il nostro paese.

Se non si studieranno alternative valide che prevedano una uscita radicale dai meccanismi “ghigliottina” dell’austerità di marca UE e non si andrà rapidamente ad un radicale cambio di sistema economico, non usciremo certo da una crisi che è strutturale e come tale non può essere risolta attraverso piccole modifiche o peggio ancora con “pezze a colori” che non risolvono i problemi e che ci spingono inevitabilmente verso la stessa strada che ha portato la Grecia ad uno stato di impoverimento mai visto.

Ad una crisi strutturale si può rispondere soltanto con cambiamenti strutturali e… radicali.

* da Essere il cambiamento per non sperare nel cambiamento

 

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