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Scuola Pubblica Italiana: cronaca di una morte annunciata

Ho appena finito di ascoltare, su  Skytg24, le baldanzose rimostranze di una tizia deputata di  Forza Italia che inveiva contro l’attuale governo per la “esiguità degli stanziamenti sulla scuola”.

C’è un limite a tutto, anche alle fesserie. L’onorevole forzaitaliota non ricorda o si guarda bene dal ricordare che il massacro contro la scuola pubblica lo ha iniziato (ed alla grande) proprio il governo di cui il suo partito era alla guida ed il cui ministro dell’istruzione (ribattezzato “della distruzione”) era  Maria Stella Gelmini. Si, quella del “tunnel tra Svizzera e Abruzzo”.

Fu, infatti, in applicazione del famigerato Decreto Legge 112/2008 [1] che furono disposti  10 miliardi  di tagli al bilancio di scuola e università, tra il 2008 e il 2012 (8 miliardi e cinquecento milioni di tagli alla scuola più 1 miliardo e mezzo alle università). 

La catastrofica conseguenza furono 100 mila cattedre in meno in ogni ordine di scuola ed il poderoso aumento del rapporto tra insegnanti e alunni con la sciagurato avvento delle «classi pollaio» che arrivarono a contare fino a 30 alunni per classe. Tutto con il consueto sostanziale consenso dei sindacati della scuola che di certo non alzarono le barricate…. Anzi.  Certo, poi anche i governi successivi non ci fecero mancare nulla sul fronte dei tagli alla scuola.

ll Governo Monti, dopo aver introdotto il famigerato “pareggio di bilancio” in Costituzione [2] , applicò subito la  Spending Review al settore dell’Istruzione Pubblica mediante l’accorpamento obbligatorio di 5700 istituzioni scolastiche con tutte le conseguenze sulla riduzione dei posti dirigenziali e sulla mobilità del personale ATA.

Inoltre, contrariamente a quanto annunciato, Monti non impose l’IMU alle scuole cattoliche che, vale la pena sempre di ricordare, sono enti privati in cui si pagano rette aggiuntive ma che vengono addirittura sovvenzionate con fondi pubblici.

Poi, dopo la breve parentesi del Governo Letta, arrivò il governo Renzi che sottrasse  148 milioni all’Istruzione ma, cosa ben più grave, approvò una orribile legge rivenduta come una grande riforma – la così detta ” Buona Scuola” – ma che in realtà fu solo un  escamotage finalizzato ad evitare le multe per l’abuso del lavoro precario in seguito ad una precedente condanna della CGE.

Quella legge ha prodotto danni incalcolabili ad un sistema scolastico che era già stato messo in ginocchio dai governi precedenti, ha fatto esplodere le contraddizioni e le criticità che erano state introdotte dalla riforma dell’Autonomia Scolastica voluta dall’allora ministro della Pubblica Istruzione [3],  assegnando ai dirigenti scolastici poteri di vita o di morte sul personale, deportando migliaia di insegnanti con alle spalle decine di anni di precariato a centinaia di km da casa e rendendo obbligatoria la famigerata “alternanza scuola-lavoro”, ovvero, il lavoro coatto, insicuro (alcuni finirono all’ospedale) e gratuito dei ragazzi delle scuole al servizio delle aziende. 

Il successivo governo Gentiloni, per non perdere il filo del discorso, dispose il taglio di complessivi  160 milioni di euro alla scuola statale nel triennio 2018- 2020.

Infine, la mazzata finale alla scuola assestata dal governo gialloverde:  una riduzione da 48,3 a 44,4 miliardi spalmata su tre anni (dal 2019 al 2021), con una diminuzione delle risorse sia per l’istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi), ovvero, un considerevole taglio del 10%. Inoltre, nel corso dell’ultimo triennio sono volati via 450 milioni per l’edilizia scolastica (una vera emergenza nazionale fin qui trascurata da tutti i governi).

E mentre il governo gialloverde assestava il colpo finale al sistema scolastico pubblico, il Ministro Salvini lanciava il piano “Scuole Sicure” per installare telecamere e aumentare i controlli di polizia nelle scuole.

Insomma, in 20 anni hanno tagliato su ogni voce di spesa della Scuola pubblica mentre i fondi e le larghissime esenzioni alle scuole-private ed ai diplomifici non sono mai mancati/e.  I bilanci delle scuole soprattutto sono talmente dimagriti che queste per finanziarsi ricorrono sempre più ai contributi “volontari”, richiesti a famiglie di lavoratori che però, a differenza dei grandi e piccoli evasori, già pagano fior di tasse. 

Intanto gli studenti fanno lezione al freddo in scuole sempre più a rischio di crollo in aule strette ed in istituti scolastici spesso privi laboratori e palestre, quando non addirittura di una connessione internet accettabile. E, intanto, il gravissimo fenomeno della dispersione scolastica è in rapido aumento: solo nel 2019, 151.555 studenti hanno abbandonato la scuola prematuramente nel corso del quinquennio, ovvero, uno studente ogni quattro.

L’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa per fondi all’istruzione. Nel 2017 (dati  Eurostat più recenti) l’Italia ha speso in istruzione(scuola ed università) circa 66 miliardi di euro, una cifra in calo rispetto ai 72 miliardi di euro registrati nel 2009. Nello specifico, il singolo settore di spesa in istruzione più lontano dalla media UE è quello relativo all’università in cui l’Italia ha investito nel 2017 lo 0,3 per cento del Pil, contro lo 0,7 per cento della media comunitaria. Nessuno Stato membro dell’area UE aveva fatto peggio.

Nel 2009, l’Italia aveva speso in istruzione pubblica poco più di 72 miliardi di euro, circa 6 miliardi di euro in più rispetto a dodici anni dopo. Ma, nello stesso periodo di tempo, la Germania ha aumentato di oltre 28 miliardi di euro la spesa in questo settore, la Francia di circa 15 miliardi.

Se poi si guarda alla spesa italiana destinata all’istruzione pubblica  in rapporto a quella pubblica totale e al Pil, in entrambi i casi, a livello europeo, la posizione in classifica del nostro Paese precipita in basso.

Nel 2017, l’Italia ha investito nell’istruzione pubblica il 7,9 per cento della sua spesa pubblica totale: Stato membro Ue ultimo in graduatoria. Le percentuali di Germania, Regno Unito e Francia erano state rispettivamente del 9,3 per cento, 11,3 per cento e 9,6 per cento.

Prima della crisi, nel 2009, il 9 per cento della spesa pubblica italiana era andato in istruzione: l’1,1 per cento in più rispetto al 2017. Nel 2017, i Paesi Ue hanno investito in istruzione, in media, una cifra pari al 4,6 del Pil, un -0,6 per cento rispetto al 5,2 per cento del 2009. Due anni fa, il rapporto tra spesa in istruzione e spesa pubblica totale è stata in media del 10,2 per cento, in calo dello 0,3 per cento rispetto al 10,5 per cento del 2009.

Dunque, l’Italia spende in istruzione meno degli altri grandi Paesi Ue, sia in rapporto al Pil che alla spesa pubblica totale, e il calo dal 2009 in poi è più veloce che negli altri paesi UE.  Ma anche nel confronto internazionale, il nostro paese non è messo meglio.

A settembre 2019, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha pubblicato l’annuale rapporto  Education at a Glance 2019 [5], che tra le altre cose contiene le stime sulla spesa in istruzione dei 37 Stati membri, più quella di alcuni Paesi partner dell’organizzazione. 

Nella classifica degli Stati con le economie più avanzate al mondo, l’Italia è ultima per spesa in istruzione in rapporto alla spesa pubblica totale. Con il 6,9 cento, il nostro Paese è il fanalino di coda (p. 311 del rapporto). Più di noi spendono, per esempio, gli Stati Uniti (11,4 per cento), il Giappone (7,8 per cento), il Canada (11,4 per cento), l’Australia (12,5 per cento) e il Brasile (14 per cento).  Nei singoli settori, l’Italia è sotto la media anche se paragonata agli Stati Ocse.

Come spiega la nota dell’ Education at a Glance 2019 riservata al nostro Paese, in Italia «la spesa per studente spazia da circa 8.000 dollari statunitensi nell’istruzione primaria (94 per cento della media Ocse) a 9.200 dollari statunitensi nell’istruzione secondaria (92 per cento della media Ocse) e 11.600 dollari statunitensi nei corsi di studio terziari (74 per cento della media Ocse)». 

E c’entra poco il calo demografico: la stessa nota dell’Ocse ha sottolineato che il calo della spesa in istruzione avvenuto in Italia è stato maggiore rispetto a quello demografico. In altre parole, i tagli non sono giustificati dal calo delle nascite e dal conseguente calo del numero degli iscritti a scuola. 

E che dire delle retribuzioni dei docenti? Tra i più bassi in Europa ma anche nel confronto internazionale. Lo dicono da tempo le principali statistiche sulla scuola. L’ultima in ordine di tempo è proprio il su citato rapporto  Education at glance 2019 curato dall’OCSE. 

Ed ora c’è il dilemma della riaperture delle scuole a settembre dopo la chiusura decisa dal governo per contrastare la pandemia da  corona virus. Fino a oggi abbiamo ascoltato solo delle ipotesi e non si intravede un piano preciso per la riapertura. Si punta alla didattica mista applicabile solo alla scuola secondaria portando metà dell’aula a seguire le lezioni da casa e metà in classe.

Una soluzione che non tiene conto del “digital divide”, ovvero, del divario esistente tra chi ha accesso alle tecnologie dell’informazione e chi ne è escluso. Una soluzione contestata soprattutto dai docenti che dovrebbero dividersi tra video e aula e che non è applicale alle classi dei bambini più piccoli.

Ma quanti soldi ci vorrebbero per riaprire le scuole? Di sicuro un consistente ed efficace piano di rilancio della scuola pubblica e di veloce adattamento alla situazione determinata dalla pandemia di corona virus, secondo gli esperti, potrebbe costare fino a 20 miliardi di euro. Sarebbe un’occasione storica per risolvere i problemi cronici della scuola pubblica italiana, certo, se spesi in modo giusto e mirato.

Tuttavia, ad ostacolare qualsiasi progetto che includa un corposo piano di investimenti sono i soliti vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità della solita Unione Europea.

Le politiche di  austerity che – al netto delle risorse messe in campo per la pandemia e ancora tutte da verificare – restano un paradigma teologico irrinunciabile per questa Unione Europea ed agiscono come un cappio pronto a stringersi intorno al collo dei paesi sottoposti all’eterno ricatto del debito pubblico, e non c’è pandemia che tenga. Prima ce ne rendiamo conto e meglio è. 

[1] Decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), donosciuto anche come decreto Brunetta dal nome dell’ispiratore Renato Brunetta, venne emanato il 25 giugno 2008 durante il governo Berlusconi IV, e successivamente convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133.

[2] Art. 81 Cost. : «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale.»

[3] Decreto legislativo 6 marzo 1998, n. 59 – Disciplina della qualifica dirigenziale dei capi di istituto delle istituzioni scolastiche autonome, a norma dell’articolo 21, comma 16, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e  Decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275 – Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59

[4] Legge del 20 maggio  2015, n. 107 ” Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti.

[5] “Education at a glance” / Uno sguardo sull’Istruzione: Indicatori dell’OCSE (OECD, 2019[1]) è una fonte autorevole d’informazioni sullo stato dell’istruzione nel mondo. Il rapporto presenta dati sulla struttura, sul finanziamento e sulle prestazioni dei sistemi d’istruzione dell’area dell’OCSE e dei Paesi partner dell’Organizzazione.

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2 Commenti


  • Franca Centra

    Mi sembra un esaustivo esame della situazione della scuola da qualche anno ad oggi. Come se la caveranno con questa situazione i maggiorenni di domani? Qualche esempio lo abbiamo già oggi dai governi attuali …


  • Emilia d’ annunzio

    I sindacati non possono fare barricate da soli, c’è bisogno della partecipazione, io ho aderito a diversi scioperi, sono stata a Roma in manifestazioni grandissime ma a nulla è servito il decreto scuola della Gelmini fu votato di notte e al mattino a scuola il delirio. Al ventennio berlusconiano seguirono altri governi e altri ministri ma nessuno ha abolito la legge Gelmini perché a noi insegnanti è negato essere ascoltati perché lavoriamo 18 ore a settimana e facciamo 3 mesi di ferie e poi produciamo cultura e conoscenza, ma questo non conta nulla
    Emilia

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