Data la valanga di critiche giunta al Ministero, le manifestazioni in oltre sessanta città di lavoratori della scuola e genitori, era lecito attendersi che la bozza di Linee guida per il rientro a scuola di settembre sarebbe stata sensibilmente modificata nella sua stesura finale.
Così non è stato. Confrontando la bozza e la stesura finale si trovano due sole significative differenze: sparisce il riferimento alle figure educative che conducono attività integrative che non saranno più chiamate a essere responsabili delle classi e il metro di distanza tra i banchi diventa un metro tra le “rime buccali” (!).
Quest’ultima bizzarra correzione è fatta, in sostanza, per guadagnare qualche centimetro dal metro di distanza e far entrare qualche alunno in più in aula. A questo proposito, la ministra ha annunciato pomposamente che sarà predisposta una app che permetterà di incrociare i dati sulle situazioni edilizie di vari istituti. Se funzionerà e servirà a qualcosa, lo vedremo.
Nonostante tutto questo, ciò che sembra avere destato una certa soddisfazione nei presidenti di regione, quale l’emiliano Bonaccini, è l’aumento dello stanziamento di fondi per la scuola promesso ma non ancora esattamente quantificato dal Presidente del Consiglio.
Destinare maggiori fondi alla scuola è senz’altro una buona cosa, ma non può bastare a dare un giudizio positivo su come il governo intende la ripresa settembrina. Ciò anche perché tali fondi non si tradurranno in un’entrata di docenti e personale ATA in più, poiché, come ha detto la Ministra, le assunzioni saranno a tempo determinato e, aggiungiamo noi, riguardano per la maggior parte personale precario già in servizio, quindi aumenteranno solo in minima parte l’organico delle scuole.
Inoltre, una parte del movimento “priorità alla scuola” non ha esitato a richiedere piuttosto acriticamente che all’istruzione fosse destinata una parte dei fondi che si presume arriveranno dalla Commissione Europea, che non sono ancora sicuri e che soprattutto non saranno certo un gentile regalo, ma saranno legati in gran parte a impegni di restituzione e soprattutto a riforme strutturali da apportare al nostro paese, magari anche alla scuola.
E le precedenti esperienze, Grecia compresa, fanno tremare.
Giova anche ricordare che la crisi della scuola italiana non è dovuta solo ai tagli di bilancio, pur gravi, ma in buona parte all’impianto dell’organizzazione del lavoro e della didattica imposto negli ultimi venti anni, con cui le Linee guida si pongono in una continuità che è rimasta completamente intatta, nonostante le tante critiche espresse da pedagogisti e insegnanti.
In particolare, tutto il documento, che utilizza alcune indicazioni del Comitato Colao e della Commissione Bianchi, è impostato sulla commistione tra pubblico e privato, nel nome della sussidiarietà.
L’approdo al concetto di sussidiarietà sembra essere la continuazione del lungo percorso iniziato nel 1997 con il varo dell’autonomia scolastica e giunto a un punto di svolta decisivo con la legge 107/2015, la “Buona scuola“ di Renzi.
Tale commistione, naturalmente, viene presentata come una pulsione al volontariato, alla filantropia, alla beneficenza da parte dei privati, occultando che ciò, in realtà, non può che significare un’indebita ingerenza se non un totale asservimento della scuola alle esigenze del capitale.
Non è un caso che si siano già sperimentate, nel nostro paese, alcune situazioni di sponsorizzazione di scuole e progetti di scuole che hanno sempre avuto come sbocco la torsione verso un modello produttivistico dell’offerta formativa.
L’autonomia scolastica è, ancora una volta, il brodo di coltura all’interno del quale si possono sviluppare tali attività di carattere aziendalista e privatista. In tale contesto, la scuola non appare certamente tutelata dal fatto che sia stato escluso dalle Linee guida che figure che non fanno parte dell’organico docente non possano avere ruoli di responsabilità nella vigilanza degli alunni, poiché sicuramente aziende e associazioni private potranno inviare i loro “esperti” ad affiancare i docenti.
Appare anche pericolosa la formulazione del “Patto educativo di comunità” che tanto piace al Ministero, in cui dovrebbero convergere i contributi delle regioni, del cosiddetto volontariato e dei privati. Una commistione e una compromissione rischiosa, in cui i ruoli e soprattutto il senso delle istituzioni di stemperano.
La scuola è una colonna istituzionale pubblica dello stato italiano, non può essere frammentata e smembrata in “patti educativi di comunità” locali in cui entrano interessi privati, sponsorizzazioni, esperti aziendali, associazioni di “volontariato” magari confessionali.
Una frammentazione istituzionale, magari spacciata per aderenza alle esigenze del territorio (leggasi imprese) che accrescerebbe tra l’altro le differenze già provocate dall’autonomia scolastica.
Queste riflessioni sorgono anche perché, come ho scritto, le Linee guida si collegano ad alcune sollecitazioni della Commissione di esperti del Miur presieduta da Patrizio Bianchi, che guarda ben oltre la ripresa di settembre, nell’intenzione di un “miglioramento del sistema di istruzione nazionale”.
Una questione su cui la Ministra non sembra proprio avere le idee chiare è quella di dove mettere quel 15% di alunni e studenti che, secondo le sue dichiarazioni, in classe proprio non troveranno posto. L’indicazione è di usare musei, teatri, spazi di istituzioni varie per attività educative.
La Ministra non sembra rendersi conto che non tutte le scuole si trovano a Roma, Milano o Napoli, dove il patrimonio culturale è molto vasto ed esistono plurime attività, ma sono collocate in piccoli centri o paesi dove musei e teatri nemmeno ci sono.
In ogni caso, anche nei grandi centri non appare edificante che le scolaresche siano costrette a pencolare per la città alla ricerca di luoghi dove svolgere attività che non si riesce a fare a scuola e gli insegnanti a programmare compulsivamente uscite didattiche dettate più da esigenze di spazio che da un progetto pedagogico.
Certamente, in alcuni casi, si potrebbe pensare di riutilizzare edifici dismessi nel periodo della grande decrescita demografica degli anni novanta, ma tali sedi sono state spesso lasciate in stato d’abbandono e inoltre, non si deve dimenticare che la scuola d’oggi richiede attrezzature, laboratori e aule multimediali non essendo, a dispetto di quanto scrivono molti giornali, la scuola della cattedra e dei banchi.
Qualche giorno fa, ho letto su un giornale che gli insegnanti, per sicurezza, avrebbero dovuto fare lezione “stando in cattedra”, evitando persino di spostarsi tra i banchi. Mi chiedo quale sia la concezione della scuola di quel giornalista. Ho insegnato per decenni, e nella mia aula la cattedra nemmeno c’era.
Tuttavia, facciamo attenzione agli imbrogli. Se taluni esprimono una concezione della scuola puramente trasmissiva, che peraltro ha trovato una buona realizzazione in molte esperienze improvvisate di didattica a distanza, ben diverso è il linguaggio che si parla al Ministero, un misto di didattichese e aziendalese associato a teorie sull’innovazione didattica in cui quest’ultima coincide con digitalizzazione.
Personalmente ho sempre pensato che il digitale possa avere molte potenzialità nella scuola, ma nella direzione esattamente contraria a quella immaginata al Ministero.
Infatti, l’uso delle nuove tecnologie nella scuola dovrebbe essere destinato allo sviluppo della creatività nelle attività artistiche, come l’arte e la musica, il teatro, il cinema, dove possono dare un notevole contributo, oltre che naturalmente nelle materie tecnico-scientifiche. Ciò significa però, per converso, anche opporsi alla digitalizzazione degli apprendimenti e alla loro riduzione a sequenze prestabilite e alla sottomissione a ritmi prefissati.
In pratica, delle possibilità di sperimentare e creare offerte dalle nuove tecnologie è proposta al contrario una standardizzazione dei percorsi e degli obiettivi, magari verificati con i famigerati test a scelta multipla tanto amati dall’INVALSI.
Tutto questo va tenuto presente per quanto riguarda le Linee guida, ricordando che ogni scuola dovrà, secondo tale documento, inserire nel proprio PTOF una parte riguardante la didattica digitale, indicazione che sembra voler rilanciare le non troppo certe fortune del “Piano nazionale scuola digitale” che è una delle colonne portanti della legge 107/2015.
Peraltro l’idea di una digitalizzazione dell’apprendimento si sposa alla chiara tendenza alla riduzione dell’importanza dei saperi già in atto da anni con l’introduzione d’imperio, nella scuola, della didattica per competenze, assai spinta da attori esterni alla scuola, come l’OCSE, la Tavola degli Industriali Europei, il FMI, che nell’ultimo trentennio hanno deciso di impegnarsi nella formazione per indirizzarla verso le esigenze delle imprese e del mercato del lavoro.
Proprio pensando al mercato del lavoro, tali agenzie internazionali, con l’accordo dell’Unione Europea, che ne ha accolto le istanze in molte delle sue conferenze, prima tra tutte Lisbona 2000, immaginano una scuola dove s’impara ciò che serve per il lavoro, non quanto è utile a un cittadino critico e consapevole.
Poiché solo pochi saranno destinati ai più alti livelli nel mondo del lavoro, è inutile fingere che la società sia diversa da come è, fornendo un’istruzione di qualità a tutti. Per la maggioranza, basta infatti sapere poche cose e, secondo la logica delle competenze, saper risolvere qualche problema semplice, come gli “Episodi di apprendimento situato” attraverso alcune tecniche le quali si appoggiano spesso al digitale.
Nulla a che vedere con la complessità dei saperi, la ricerca, l’approfondimento discorsivo e narrativo.
In questo quadro va collocata per esempio, la proposta delle Linee guida di “aggregazione delle discipline in aree e ambiti disciplinari”, che evidentemente non contribuisce all’approfondimento dei saperi, ma piuttosto a un loro utilizzo per la risoluzione di semplici problemi volti all’acquisizione d competenze.
Evidente poi, l’importanza che in un tale quadro assumono i “Percorsi trasversali per l’orientamento”, cioè l’alternanza scuola lavoro, momento fondamentale per instillare nei giovani la cultura aziendalista e di formazione ideologica alla sottomissione del lavoro dipendente.
Nemmeno di fronte alle evidenti difficoltà in cui si trovano molti studenti a causa di un anno scolastico bruscamente interrotto e malamente concluso con la didattica a distanza, la Ministra ha pensato si potesse rinunciare a un’attività tanto discussa come l’alternanza scuola-lavoro a favore di tempo dedicato al recupero dei saperi.
A proposito delle attività di recupero per i molti studenti che hanno avuto difficoltà durante il periodo della didattica a distanza, non è chiaro cosa accadrà a settembre, ma la Ministra ha parlato di attività che inizieranno già dal primo del mese, ma anche di possibilità di “potenziamento” per gli alunni che vogliono mostrare il loro “talento”.
Iniziativa, quest’ultima, che potrebbe apparire poco adatta al momento, ma che si spiega con l’insistenza con la quale da qualche tempo si batte sul tasto dei “superdotati”. Insomma, la scuola deve avere degli eccellenti e dei mediocri, se vuole adattarsi alla gerarchia sociale e alla giungla del lavoro.
Le linee guida del Ministero, quindi vanno prese molto sul serio, poiché, pur se nate in un momento d’emergenza, sono espressione di una concezione della scuola in continuità con la gestione degli ultimi decenni e guardano al contempo alle tendenze che si delineano per i prossimi.
Anche la loro vaghezza, che emerge in alcuni punti, è semplicemente segno della volontà di frammentare sempre più il sistema scolastico nazionale a vantaggio di una situazione a macchie di leopardo, con l’accrescimento non certo virtuoso delle differenze e soprattutto delle disuguaglianze, a tutto vantaggio delle “comunità educanti” che sguazzeranno nella sussidiarietà pubblico-privato.
Ci resta comunque una speranza: la Ministra ha detto che da settembre si vogliono scuole pulite e che sono stati investiti milioni per prodotti detergenti e igienizzanti. Chissà se finalmente sono finiti i tempi in cui i genitori dovevano fornire le classi di carta igienica, saponette e fazzolettini.
Questo anche se resta una domanda inquietante: chi pulirà le aule, con una dotazione organica così insufficiente di collaboratori scolastici?
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