Domani è il 34° anniversario della strage alla stazione di Bologna. E i magistrati della locale Procura hanno messo la parola fine sulla cosiddetta “pista palestinese”, chiedendo l’archiviazione dell’indagine contro Thomas Kram e Kristel Froelich, due compagni tedeschi tirati in mezzo senza alcuna ragione plausibile.
La storia di questa “pista” è esemplare, a suo modo, perché dice molto non sulla strage, ma su come operano i servizi segreti occidentali e quelli israeliani in particolare.
Circa dieci anni fa cominciarono a uscire su diversi giornali italiani articoli che accreditavano un’ipotesi da film: la strage sarebbe stata ordinata da ignoti “palestinesi” ed eseguita da due “terroristi tedeschi”. Il movente? Ancora più fantascientifico: una “vendetta” per l’arresto di Abu Anzeh Saleh, un militante del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, la formazione comunista fondata e guidata allora da George Habbash.
Saleh era stato in effetti arrestato nel 1979, a bordo di un furgone che trasportava due lanciamissili, insieme a Daniele Pifano e altri due militati dell’Autonomia Operaia romana. Condannato successivamente a cinque anni, è poi rimasto in carcere fino all’estate del 1982 (per le normali riduzioni di pena previsti dalla “riforma Gozzini” scontò effettivamente tre anni e mezzo).
Questo arresto, secondo la versione suggerita alla stampa dalla propaganda israeliana, avrebbe violato il cosiddetto “lodo Moro”, un accordo stretto tra lo Stato italiano e i gruppi della Resistenza palestinese nel 1973 (Moro era in quel momento ministro degli esteri), secondo cui i palestinesi si impegnavano a non compiere più attentati anti-israeliani in territorio italiano, in cambio della libertà di circolazione per i propri militanti, anche se dotati di armi.
Un patto impensabile di questi tempi, ma allora assolutamente “normale” per evitare guai peggiori. Il 5 settembre 1973, infatti, erano stati arrestati in un appartamento di Ostia, sul litorale di Roma, cinque palestinesi armati di lanciamissili terra-aria Strela.
II 31 ottobre 1973, in seguito appunto alla definizione del “lodo Moro”, due dei cinque vennero rimessi in libertà e imbarcati all’aeroporto di Ciampino su un aereo del Sid (il servizio segreto italiano, nelle denomizione d’allora), l’”Argo 16″, con destinazione Libia.
Il mese successivo il Mossad si vendicò facendo esplodere l’Argo 16 in volo, con sei militari italiani a bordo. Anche in questo caso il governo in carica protestò segretamente con Israele, ma ufficialmente fece iscrivere questa strage all’elenco dei “misteri”.
Possibile che i palestinesi abbiano rotto in modo tanto tragico (85 morti, a Bologna) un accordo per loro comunque molto conveniente soltanto per “vendicare” un singolo arresto, peraltro seguito da una detenzione “minima”? No, secondo logica e testimonianze concordanti (i palestinesi continuarono a non effettuare attacchi anti-israeliani in Italia anche dopo quella data).
Ma in base a cosa veniva sostenuta la “validità” di questa pista? Un solo elemento certo: Thomas Kram aveva passato la notte tra il primo e il due agosto a Bologna. Dormendo all’Hotel Centrale e facendosi registrare con i suoi documenti regolari. L’esatto opposto, insomma, di quel che fa un “clandestino in missione operativa”, che in genere si appoggia su simpatizzanti in loco oppure – se costretto a dormire in un albergo – usa documenti falsi.
Thomas Kram, del resto, non era mai stato un “terrorista”. Vicino alle “Cellule rivoluzionarie” – un piccolo gruppo tedesco attivo a cavallo del 1970, autore di alcune azioni dimostrative non particolarmente eclatanti – era stato arrestato, condannato a una breve pena e quindi rientrato nella normale vita civile, senza più problemi né pendenze con la giustizia.
Solo leggermente diversa la posizione di Kristel Froelich, inserita nella “trama” in un secondo momento (quando apparve chiaro che Kram non era credibile come “terrorista”), e che era stata arrestata qualche tempo dopo proprio all’aeroporto di Fiumicino con una valigia contenente dell’esplosivo.
Accusata di essere un “corriere” per conto della resistenza palestinese, scontò la condanna in Italia e poi rientro da persona libera in Germania; venne successivamene arrestata di nuovo e estradata in Francia perché accusata – ed era falso anche questo – di essere in contatto con “Carlos”, ovvero Vladimir Ilich Sanchez, “uomo di mano” di diversi servizi segreti arabi di quei tempi (soprattutto iracheni).
Nella rogatoria di alcuni magistrati italiani nella prigione francese dove è detenuto “Carlos” quest’ultimo accusava il Mossad israeliano di essere l’autore della strage della stazione di Bologna. Ma proprio da ambienti vicini al Mossad è cresciuta una campagna disinformativa per allontanare ogni sospetto.
Bene. Su questa inconsistente “base probatoria”, alcuni giornali cominciarono a “pompare” la cosiddetta “pista palestinese” in contemporanea con la campagna “innocentista” a favore dei due condannati come colpevoli della strage: Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.
Una condanna che non ha mai convinto molto neanche noi, da sempre certi che una strage di quella portata, in pieno 1980, alla vigilia dei 35 giorni alla Fiat e quindi alla fine forzosa del “decennio rosso” (1968-1980), non potesse essere farina del sacco autoreferenziale dei Nar. Roba da “servizi”, insomma, non da fascistelli dalla pistola facile. Ma questa è un’altra storia…
Invece – all’inizio del nuovo millennio e in piena “guerra infinita al terrorismo islamico” dichiarato da Bush junior dopo l’11 settembre – mettere anche la Resistenza palestinese nell’elenco dei nemici ufficiali dell’Occidente era certamente un obiettivo israeliano.
Chi, come noi, legge i giornali per mestiere e militanza politica, ricorda come perfino “il manifesto” partecipasse alla campagna di lancio della “pista palestinese”. In nome del “dovere di cronaca”, ovviamente, ma per mano di Andrea Colombo, ex PotOp e tante altre cose, ma fresco di ritorno attivistico nella comunità sionista romana. Coincidenze, certamente. Che riportiamo per “dovere di cronaca”.
Tutto ciò, hanno sentenziato i magistrati inquirenti di Bologna – il procuratore Roberto Alfonso e il sostituto Enrico Cieri – non sta in piedi. E’ una bufala inventata per scopi diametralmente opposti alla “ricerca della verità”. Un fatto da tenere sempre ben presente nella nostra testa. Sia per la giornata di domani che in cento altre occasioni.
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