Una sera di qualche mese fa ho ricevuto questa mail: «Sono una detenuta in regime di detenzione domiciliare sanitaria provvisoria nelle mani di uno stato assente che non garantisce i diritti inalienabili quali salute e vita. Ho scritto un libro che contiene la mia testimonianza e la testimonianza di altre due detenute. In questo scritto è spiegato molto bene il motivo per cui i medici del carcere preferiscono impegnarsi su come giustificare un decesso piuttosto che relazionare “non curabile in carcere”, potete aiutarmi a pubblicarlo e divulgarlo?»
La mattina successiva chiamo Monica per capire meglio di cosa si trattasse.
Dalla sua voce esile, assieme ai segni della sofferenza interiore – ancor prima che fisica – che stanno attraversando la sua esistenza, avevo percepito una sensibilità fuori dal comune e l’enorme indignazione verso il sistema carcerario: voleva rendere pubblico quanto le è accaduto durante gli anni di detenzione, affinché la società possa prendere coscienza delle violenze psicologiche e fisiche cui sono costrette le persone detenute che per un motivo o per un altro non si trovino in perfetta salute.
Mi sono fatta inviare il testo e lo condivisi immediatamente con Francesca de Carolis, entrambe entusiaste, malgrado tutto, di queste pagine sul carcere al femminile, peraltro rarissime.
Il tema della malasanità penitenziaria e la mancata applicazione dell’art. 47 ter dell’O.P., ovvero la sospensione o la modifica della misura detentiva per motivi di salute, lo abbiamo affrontato e denunciato più volte, in alcuni casi anche con successo.
luglio del 2018, a seguito della sentenza a favore del detenuto-ammalato Marcello Dell’Utri – coscienti che di detenuti anonimi ce ne sono a migliaia con patologie ben più gravi -, lanciammo un appello pubblico per la scarcerazione dei/delle detenuti/e gravemente ammalati/e.
L’appello, sottoscritto da migliaia di cittadini, intellettuali e attivisti, venne inviato a tutte le istituzioni ma rimase lettera morta.
Nell’immaginario collettivo la malasanità (specialmente al sud) è argomento comune e quotidiano che ben si rappresenta attraverso le code e le attese nei pronto soccorso, le strutture sporche e fatiscenti, il personale scelto per la parentela più che per le competenze, la mancanza di ricerca, le donne morte di parto (tristemente tornate alla ribalta negli ultimi anni), lo smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata, i così detti “viaggi della speranza” che migliaia di persone affrontano, dal Sud, con l’aspettativa di poter curare adeguatamente ed efficacemente la malattia.
Di contro è inimmaginabile la malasanità penitenziaria: dalla semplice influenza a patologie importanti, curarsi, o “essere curati” in base al processo di infantilizzazione cui è sottoposta la persona reclusa, diventa un vero e proprio calvario nel calvario.
In questo libro, Monica Scaglia, “detenuta oncologica”, narra le sue peripezie nelle carceri di Torino e Vercelli per poter accedere alle cure e ai controlli, esattamente come farebbe una donna del Sud al Sud.
Stesse code d’attesa per essere visitata approssimativamente da improbabili medici, con l’aggravante di non potersi rivolgere altrove, di non potersi fidare neanche dei referti “copia e incolla” o, peggio ancora, falsificati per evitare che dovesse essere concessa la misura alternativa.
La definizione di “detenuta oncologica” amplifica la doppia condizione di persona privata della libertà e quella di persona ammalata. Detenzione e malattia, cura e viaggi, speranza. Parole che rimandano automaticamente ad una serie di affinità tra la marginalizzazione e l’esclusione dai diritti fondamentali scientemente operati nei territori del sud, creando al tempo stesso un legame accomunato dal viaggio e dalla speranza.
L’impossibilità di potersi curare alternativamente ed efficacemente vale al Sud e vale negli istituti penitenziari, entrambi luoghi abitati e destinati a meridionali, migranti e marginalità sociali, una negazione che crea legame tra la marginalizzazione del Sud e la popolazione detenuta attraverso i viaggi, tutti della speranza. Quelli che affrontano migliaia di persone da sud verso nord con la speranza di potersi curare, quelli dei familiari dei carcerati che sperano di vederli rieducati, guariti, pronti per la libertà.
Il carcere e l’ospedale, due istituzioni di cura e riabilitazione, dove spesso si entra per una banalità salvo poi uscirne peggiorati, annientati, trasformati, svuotati. E nelle ultime righe del racconto di Monica ben emerge la trasformazione peggiorativa che il carcere in lei, detenuta oncologica, ha prodotto e che avrebbe potuto avere la meglio: ”(…) mi renderò conto di aver toccato il fondo, riuscendo a mentire a tutti senza difficoltà alcuna e senza rimorso, io che prima della carcerazione non sapevo dire bugie.
Ma sarò spesso tentata di comporre numeri di telefono che mi hanno lasciato le detenute, per intraprendere una carriera lavorativa ‘criminale’. Sarei il soggetto ideale: sangue freddo, nessuna titubanza, nessuna paura, nessuna emozione trapelerà mai più dal mio volto e dai miei comportamenti. Scegliendo questa strada, sarei in grado di mantenere tutta la famiglia e non essere mantenuta io da un ragazzo di 24 anni. Mi vergogno di questa situazione. A cosa mi è servito il carcere? Ad aprirmi le porte al mondo criminale, mondo che prima non conoscevo, mondo che si estende non solo ai detenuti. Tutti si fidano ciecamente di me!”
Ma assieme alla freddezza e allo svuotamento prodotti dal carcere e dalla malattia, i legami che le sbarre non hanno potuto impedire e che tra le sbarre sono fioriti, hanno prodotto corazza, resistenza, voglia di lottare per sé, per suo figlio e per gli altri invisibili. E Monica sceglie di non soccombere, attivando tutte le risorse vitali per non tradire i suoi principi che restano ben saldi, nonostante il carcere.
E questo lavoro è testimonianza della resistenza quotidiana alla violenza che il sistema penitenziario attua sulle persone prese in carico attraverso la negazione dei diritti fondamentali, attraverso la violazione del suo stesso mandato rieducativo e curativo, attraverso la censura degli affetti, dei legami, della voce.
Voce che può essere data dalla società civile messa a conoscenza della realtà carceraria ma che viene censurata: sono convinta che le lettere di denuncia che Monica ha inviato siano state arbitrariamente trattenute e distrutte. È prassi consolidata far sparire le lettere destinate e/o provenienti da soggetti e organizzazioni “scomode” per isolare ulteriormente oltre la reclusione, i regolamenti e le norme.
La storia di Monica è specchio fedele della condizione di migliaia di persone detenute e ammalate sulle quali si consuma un “accanimento detentivo” che antepone la ratio punitiva della reclusione al diritto della persona ammalata di essere curata.
L’ammalato detenuto è colpevole prima che ammalato, l’esigenza punitiva della pena ne ha sostituito la funzione rieducativa al punto da anteporsi al dovere di uno Stato di assicurare adeguate cure a ciascun individuo in quanto tale e parte di una collettività.
Il carcere, ovunque si trovi, è un Sud.
Sandra Berardi – Associazione Yairaiha Onlus
*Prefazione a “Già fantasmi prima di morire” di Monica Scaglia, introduzione di Domenico Bilotti, postfazione di Francesca de Carolis, ed. Sensibili alle Foglie, 2019
Per richiedere il libro inviare una mail a: yairaiha@gmail.com oppure ad: Associazione Yairaiha Onlus, Via Salita Motta, 9 – 87100 Cosenza
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