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Rapporto Censis. Il 2020 è stato “l’anno della paura”, con quello che ne consegue

Il rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del paese, ha sintetizzato il terribile anno si sta concludendo come l’anno della paura nera, dove il virus Covid, ha innescato una paura più generale, quella su futuro dove, a dispetto della rassicurazioni istituzionali, gran parte delle si vede dentro un tunnel da cui ancora non si riesce a scorgere la fine.

Il Censis, presentando oggi il suo rapporto annuale, restituisce un quadro del paese certamente preoccupante. La brusca rottura con un modello di vita del passato rappresentata dalla pandemia, sta smuovendo profondamente la società.

Secondo il rapporto l’incertezza nei numeri e le tante voci hanno innescato negli italiani l’idea che ci dovesse essere una sovracapacità d’intervento dello Stato. E in effetti la società ha affidato alla responsabilità politica il compito di affrontare l’emergenza, di farlo velocemente, di intervenire attraverso le ordinanze di protezione civile, i decreti della Presidenza del consiglio, ed anche attraverso la compressione delle libertà civili.

Relativamente alle festività di Natale e Capodanno, secondo il Censis il 79,8% degli italiani chiede di non allentare le restrizioni o di inasprirle. Il 54,6% spenderà di meno per i regali da mettere sotto l’albero, il 59,6% taglierà le spese per il cenone dell’ultimo dell’anno. Per il 61,6% la festa di Capodanno sarà triste e rassegnata. E in futuro non andrà affatto tutto bene: il 44,8% degli italiani è convinto che usciremo peggiori dalla pandemia (solo il 20,5% crede che questa esperienza ci renderà migliori).

In particolare è stata la seconda ondata della pandemia a incidere più pesantemente. “Non ci si aspettava la ripresa pandemica, e così l’attesa si è trasformata in disorientamento, la semplificazione delle soluzioni in emergenza è diventata sottovalutazione dei problemi”, ed ora il contagio della paura rischia di mutare in rabbia.

Di qui, secondo il Censis, nasce l’esigenza di “un ripensamento strutturale per la ricostruzione, per i prossimi dieci anni, per le nuove generazioni”, per la società italiana.

La realtà di oggi impone di “prendere atto che il Paese si muove in condizioni a troppo alto rischio per non presupporre una nuova e sistemica azione della mano pubblica: non per riparare i guasti, ma per ripensare il Paese, per cogliere l’occasione di immaginarlo di nuovo, per non rinchiudere la nostra società in una cultura del sussidio e del respiro breve”.

Le parole rassicuranti non sembrano bastare, anzi via via perdono di significato. Tra queste il Censis cita parole come: resilienza, mobilità sostenibile, digitalizzazione dell’azione amministrativa, rete unica ultraveloce, economia verde, investimento sui giovani. È avvertito da tutti che per rimettere in cammino l’economia e rimettere insieme la società occorrono interventi concreti e in profondità, che il puro gioco di controllo e mediazione delle variabili sociali è fuori dal tempo.

Viene sottolineato nel Rapporto che la classe politica ha scelto di non vedere il pericolo di regressione che, una volta superata la fase più acuta dell’emergenza, la concessione a pioggia di bonus di ogni genere e natura veniva accrescendo, ed ha offerto, a richiesta, la promessa di aiuti indistinti, il caricamento di crediti d’imposta senza limiti, la gestione concentrata nel vertice delle decisioni, la rimozione dei raccordi tra il contenimento di congiunturali picchi di sofferenza e il perseguimento di precisi obiettivi di medio periodo. 

Adesso si tratta di procedere, e con passo avanzato. Capire però verso dove andare, e il Censis evidenzia che in realtà la società “fiuta il tempo e il cambiamento della storia, guardando oltre la pandemia, muta e prova a emanciparsi dal suo impantanamento declinante”. Il velo è ormai “squarciato”, le sicurezze si dissolvono, alcune contraddizioni di fondo emergono alla vista. La società conosce anche i rischi della paura e della fretta che questa impone nello smantellamento del primato individuale e settoriale e, in qualche modo, “si sente costretta a un ritorno alla dimensione sistemica dello sviluppo”.

Ed è altrettanto evidente che “non sono più tollerabili” le distorsioni che scaricano sugli onesti l’illegalità degli evasori. Un altro ambito importante di intervento è quello del sistema delle uscite, attraverso un ridisegno del sistema industriale e un ripensamento della qualità degli investimenti a sostegno della produzione, dell’innovazione, delle esportazioni appare uno sforzo prioritario. Uscendo dall'”indistinto aiuto a tutti”, dall’impegno al ristoro come sussidio generalizzato, riconducendo in una percorribile politica industriale la pletora di microinterventi già decisi o in via di approvazione.

Poi c’è l’esigenza, urgente, di un ripensamento strutturale dei sistemi e sottosistemi territoriali, con un dibattito sul Mezzogiorno che precipitosamente affonda. Colpisce che anche il Censis arrivi alla conclusione che anche una nuova “questione settentrionale si impone”, perché se da un lato quell’area è più esposta al rischio di diventare una periferia a minore valore aggiunto dei sistemi produttivi nordeuropei, dall’altro è posta nelle condizioni di cogliere tutte le opportunità che il nuovo quadro dell’industria europea va configurando.

Un po’ troppo prevedibile, nel rapporto del Censis, la marchetta al cosiddetto ‘terzo settore’. Il Censis richiama l’attenzione sul variegato – e a fortissime tinte grigie – mondo del no profit (onlus, associazioni, fondazioni etc.) ritenendo quasi un obbligo rivederne attribuzioni di ruolo, identità, funzioni e responsabilità.

Per il Censis il terzo settore “è un po’ attore e progettista dell’intervento sociale, ammortizzatore dell’inefficienza pubblica e privata, è in parte dipendente dalle risorse esterne e in parte imprese chiamate a vivere di mercato, destinatario d’impegni pubblici ma anche indifferente alla selezione competitiva, custode di una cultura di responsabilità sociale i cui confini sono incerti. Talmente incerti – aggiungiamo noi – che parlando al forum degli economisti ad Assisi, lo stesso pontefice ha bastonato il terzo settore denunciandone il richio di diventare un “palliativo” rispetto alla soluzione delle contraddizioni sociali.

Il rapporto cerca anche di individuare qualche spiraglio sottolineando come “la storia è fatta anch’essa di curve, di cicli, che prevedono anche l’allontanamento da un cupo e pigro pessimismo”.

È vero sì che i vincoli e i ritardi strutturali dell’Italia “sono una zavorra che le emergenti difficoltà economiche e sociali rendono drammatica se solo si guarda al prossimo futuro”, ma è anche vero che proprio il non esserci adattati in modo ottimale alle grandi trasformazioni dei processi globali “rivela una flessibilità, una gamma di potenzialità che possono rivelarsi una grande forza per seguire traiettorie di sviluppo fino a ieri inattese”.

In conclusione, secondo il Censis “È un’Italia che “attende di sentire di nuovo, quando dopo le lacrime altro non si avrà da offrire che fatica e sudore, il richiamo a rimettere mano al campo, senza volgersi indietro, guardando e gestendo il solco, arando diritti”.

L’analisi sociologica del Censis non va e non può andare oltre. Come sempre offre spunti interessanti ed almeno rende chiara l’idea che nulla sarà come prima, ma è sulle soluzioni per il futuro che ci si divide, inevitabilmente.

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