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La politica e la guerra, al tempo delle piattaforme

Una piattaforma di comunicazione “aperta a tutti” decide di togliere la parola al presidente degli Stati Uniti, una volta considerato “l’uomo più potente del mondo”.

Quella piattaforma, tra l’altro, è statunitense, in teoria sottoposta alle leggi di quel Paese e in ultima analisi allo stesso Presidente.

Lasciamo da parte ogni considerazione su Trump, perché in questo caso è indifferente che sia un truffatore reazionario – come certamente è – oppure qualsiasi altra cosa.

La domanda sollevata dalla decisione di Twitter e Facebook investe infatti problemi sistemici di ben altro rilievo: il rapporto tra piattaforme social, mezzi di comunicazione di massa, politica e Stati.

Il fatto che un Ceo possa staccare la spina dell’altoparlante del presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo e bilanciamento è sconcertante. Non è solo una conferma del potere di queste piattaforme, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale“, ha affermato il commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton, in un editoriale pubblicato su Politico e su Le Figaro.

Stiamo insomma parlando del potere, di chi comanda davvero, non di un uomo.

In questo tipo di organizzazione sociale – il capitalismo neoliberista occidentale – qual’è la gerarchia tra i diversi poteri? Tra quelli pubblici (Stati, Parlamenti, istituzioni, ecc) e quelli privati.

Fin qui abbiamo, almeno teoricamente, vissuto nel mondo di Montesquieu, con il potere pubblico statuale saldamente al posto di comando, diviso nel noto bilanciamento di poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). E con le imprese private relegate sullo sfondo. Potenti, certamente, capaci di manovrare la politica attraverso le lobby o “comprando” direttamente esponenti di un po’ tutti i partiti (e i dirigenti della pubblica amministrazione), ma ufficialmente fuori dal centro del potere.

Con la comparsa di imprese multinazionali, questo schema era già saltato, ma si è continuato a far finta di stare ancora nel mondo antico degli Stati-nazione. Molte di loro avevano, e a maggior ragione hanno ora, dimensioni di fatturato/profitti superiori ai bilanci di quasi tutti gli Stati minori. Solo la finanziaria Blacrock, con ben tre dirigenti che saranno funzionari di primo livello nel governo Biden, gestisce 7.000 miliardi di dollari, circa 4 volte il Pil italiano.

Dunque questo tipo di società hanno la possibilità di determinare “la politica” ovunque cerchino di farlo.

Con le piattaforme social c’è stato un ulteriore salto di qualità. Perché sono diventate in pochi anni il medium attraverso cui si fanno campagne pubblicitarie, business, cultura, informazione, e quindi anche politica.

Abbiamo visto presidenti Usa eletti grazie alla loro capacità di scegliersi un team di creativi e social manager di primo livello (Obama, poi lo stesso Trump), ma anche in Europa ormai è difficile immaginare una campagna elettorale senza una grande rilevanza dei social.

Naturalmente questa “prassi” funziona se la piattaforma è indifferente rispetto ai soggetti che la popolano. Ossia se non prende parte alla contesa politica, privilegiando alcuni e danneggiando altri.

Sappiamo bene, per esperienza diretta, che in realtà le piattaforme utilizzano algoritmi “selettivi” dei messaggi politici, discriminando quelli sgraditi ai relativi consigli di amministrazione.

Sappiamo anche che diverse organizzazioni politiche sono state “bannate”, ma in genere ciò è avvenuto per iniziativa della magistratura o delle forze di polizia nazionali. Esempi che non però non mettono in discussione la prevalenza del potere dello Stato sui privati. Anzi…

Il caso Trump ha rotto questa “neutralità politica” delle piattafome, accelerando il processo di formazione di piattaforme politicamente orientate. Com’è il caso di Parler, nata esplicitamente per favorire la diffusione del pensiero reazionario.

Il che, immediatamente, ha portato il conflitto politico anche dentro il micromondo dei sistemi operativi, visto che l’app per scaricare Parler è stata velocemente rimossa da Android… (anche Google è statunitense).

Dunque i proprietari delle piattaforme social “fanno politica”, danno parola e la tolgono, decidono chi avrà la possibilità di veicolare i propri messaggi a tutto il mondo e provare a persuadere gli incerti, e chi invece viene condannato alla clandestinità dell’anonimato o quasi.

Parlare di “democrazia” in queste condizioni è ridicolo, più che problematico. La “libera opinione” è un sogno; o meglio un incubo confezionato come una maglietta da supermercato. Ma su misura…

Ne sono stati una dimostrazione involontaria le decine di opinionisti “sedicenti democratici” che, commentando il bando a Trump, l’hanno immediatamente chiesto anche per i loro nemici di sempre (Maduro, Kim Jong Un, gli ayatollah, gli Hezbollah, e chi più ne ha, ne metta). Un po’ come quei cretini fascisti che strillano “e allora le foibe?”

Tutte scemenze che non colgono il punto: il potere di diffondere un messaggio a livello mondiale è confinato nelle mani di pochissimi “consiglieri di amministrazione” di una manciata di piattaforme che concorrono a formare l’opinione pubblica di quasi tutto il mondo.

E le opinioni sgradite vengono tacitate (mica penserete che i comunisti o in genere i rivoluzionari saranno tollerati più di Trump, no?).

Qui passiamo dal terreno politico a quello dei media. Altrettanto controverso.

Lo stesso commissario europeo Breton – grazie al ruolo di “sorvegliante del mercato” – ha colto il problema. Le piattaforme “non saranno più in grado di sottrarsi alla (loro) responsabilità” per i contenuti pubblicati.

Proprio come l’11 settembre ha segnato un cambio di paradigma per gli Stati Uniti, se non il mondo, ci saranno, quando si parla di piattaforme digitali nella nostra democrazia, un prima e un dopo l’8 gennaio 2021(data in cui Twitter ha sospeso definitivamente l’account di Donald Trump, due giorni dopo l’assalto da parte dei suoi sostenitori al Campidoglio e molti anni dopo esserne diventata il megafono quotidiano).

Quella data rimarrà come riconoscimento da parte delle piattaforme della loro responsabilità editoriale e del contenuto che trasmettono. Una sorta di 11 settembre nello spazio informativo. Rilevante o no, la decisione di censurare un presidente in carica può essere presa da una società senza controllo legittimo e democratico?“.

Domande che hanno fatto sobbalzare i leader politici di tutto il mondo, e anche parecchi direttori di testate giornalistiche. Tranne che in Italia, a riprova del vuoto mentale che ormai abita la classe dirigente di questo paese.

Le preoccupazioni dei leader sono scontate: quel che è accaduto a Trump potrebbe domattina accadere a chiunque di loro, decretandone la morte politica per decisione di uno Zuckerberg (Facebook), un Larry Page o Sundar Pichai (Google), un Jack Dorsey (Twitter), o addirittura un Kevin Systrom (Instagram).

Più sottile l’accenno alla “responsabilità editoriale per i contenuti” pubblicati. E anche questo è un tema centrale del presunto “gioco democratico”.

Fin qui, i media storici (giornali, televisioni, radio, riviste, libri, ecc) sono stati caratterizzati da un sistema di regole piuttosto rigido: ogni medium è un “soggetto privato”, anche quando di proprietà pubblica, con una direzione/redazione che seleziona ciò che può essere pubblicato oppure no, e dunque è responsabile penalmente e civilmente di quel che compare sulle sue pagine (o va in onda).

Le piattaforme, invece, sono state fin qui irresponsabili di quel che viene immesso nei loro hard disk perché dichiara(va)no di essere indifferenti o neutrali rispetto ai contenuti. Sono eventualmente i singoli utenti a dover rispondere di quanto pubblicato, in base a querela di parte o autonoma indagine giudiziaria, proprio perché non c’è alcuna selezione a monte, al momento della pubblicazione.

Ma se ora le piattaforme iniziano a discriminare chi può accedere e chi no in base all’opinione politica – sicuramente oscena, quella dei suprematisti razzisti filo-Trump – allora indirettamente le piattaforme stanno ammettendo di essere “editori”. In altri termini, ciò che compare deve essere presupposto come “approvato”. E dunque scatta la responsabilità penale e civile.

Il che apre loro le porte dell’inferno: ogni giorno decine di miliardi di post, meme, foto, video, ecc, viene pubblicato senza che nessuno – neanche il più occhiuto degli algoritmi – possa impedirlo (gli interventi sono tutti ex post). “Responsabilità”, insomma, fa rima con risarcimenti e penalità.

L’alternativa è un controllo vero, redazionale (impossibile, ripetiamo, su quelle dimensioni), oppure la riduzione drastica degli utenti abilitati a pubblicare.

Ai “sedicenti democratici” convertiti alla censura preventiva per tutti i “nemici” (Trump, ricordiamo, è entrato nell’elenco solo dopo aver perso le elezioni, prima era mal sopportato ma supportato), sempre pronti a soccorrere il vincitore e azzannare il perdente, un solo consiglio: riflettete due volte prima di parlare. Pare proprio che le piattaforme abbiano fatto la cazzata che ne cambia la storia e il modello di business, segando il ramo d’oro su cui erano assise.

Ma forse è troppo tardi anche per questo invito. “Silenziare il nemico” è sempre un atto di guerra. E in genere la precede…

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