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Il “Recovery Plan” è una cambiale in bianco alle oligarchie europee

La congiura di palazzo ordita da Renzi ai danni del governo Conte e la crisi politica che si è aperta e che ha esiti incerti per l’attuale esecutivo, sembra distogliere l’attenzione dal sostanzioso Piano Nazionale Di Ripresa e Di Resilienza (Pnrr), approvato dal Consiglio dei ministri il 12 gennaio.

Il PNRR sarà terreno di confronto con le parti sociali e dovrà passare in Parlamento, dove verranno definiti gli strumenti di governance per la sua gestione, per poi essere inviato al vaglio di Bruxelles che deciderà cosa modificare di questo pacchetto complessivo che ha sussunto anche altri progetti finanziati e finanziabili con strumenti più “ordinari”.

Si tratta di una “potenza di spesa” di ben 222,9 miliardi di Euro, suddivisa in 6 “missioni”, a loro volta composte da 16 “componenti funzionali”, con in tutto 47 “linee di intervento”, di cui una parte consistente che sarà spesa entro i prossimi tre anni.

La difficile quadratura del cerchio per l’intera architettura del PNRR consiste nello scongiurare l’aumento dell’indebitamento nel breve periodo, ricorrendo prevalentemente in una prima fase alle “sovvenzioni” europee, che sono circa la metà rispetto ai poco meno di 130 miliardi di prestiti che verranno erogati dalla Ue.

Prestiti che, anche se a tassi vantaggiosi, dovranno essere restituiti, per progetti di fatto decisi – o meglio dettati – in ambito UE per l’Italia, come per gli altri Paesi.

Il #Next Generation Italia, infatti riprende anche nel nome il #Next generation Europe, cioè l’ambizioso progetto varato dal Consiglio Europeo nella prima metà di dicembre, che era stato affiancato dal bilancio della UE per i prossimi sette anni (2021-2017). Il PNRR prevalentemente attinge dal progetto europeo.

Il #NGE è un gigantesco piano di investimenti vincolati a rigidi criteri, le cui priorità sono state dettate dalle oligarchie europee per essere al passo con la sempre più feroce concorrenza internazionale o, come viene citato nelle prime pagine del PNRR stesso, nel dare concretezza al progetto di «Europa Geopolitica» lanciato dalla Commissione Von der Leyen, per affermare l’autonomia strategica europea.

Il PNRR ne è in gran parte una sua articolazione.

Ad ogni “missione”, delle 6 di cui è composto il documento, si accompagna una “riforma”, tra cui quella forse significativa riguarderà la pubblica amministrazione.

Alla ri-configurazione produttiva si affiancheranno infatti profonde trasformazioni nella pubblica amministrazione, investimenti nelle infrastrutture ed un cambiamento sostanziale nel mondo dell’istruzione e della ricerca, che sarà ancora più piegato alle necessità dell’impresa.

Alle tre voci direttamente dedicate all’impresa vanno poco meno di un quinto del pacchetto complessivo, cioè quasi 50 miliardi che si sommano ai soldi a pioggia dati in questi anni all’imprenditoria, senza che si siano avute ricadute sociali effettive in termini di creazione di occupazione, né un miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici.

Le misure per la coesione sociale (che dovrebbero avere come priorità donne, giovani e sud), insieme a digitalizzazione e alla transizione ecologica, sono i tre perni di questa capacità di spesa vincolata: il documento dell’Unione infatti prevede una soglia non inferiore del 37% per gli investimenti green ed una al 20% per quelli nel campo della digitalizzazione. Più di 115 miliardi, cioè meta del pacchetto complessivo, compresi i soldi che verranno attinti da altri fondi vanno in questa direzione.

L’Italia quindi sarà parte integrante di questo salto di qualità che l’asse franco-tedesco vuole imporre allo sviluppo dell’Unione, facendolo diventare un polo in grado di rivaleggiare con Cina e USA in alcuni settori di punta.

L’Europa neo-carolingia impone agli altri paesi una riconfigurazione produttiva, tesa a connettere il proprio tessuto economico ancora più strettamente alle filiere produttive delle multinazionali continentali, comprese le loro necessità logistiche, di cui l’Italia sta diventando sempre più un hub di servizio.

La coesione sociale di cui si vaneggia nel PNRR sarà un pallido palliativo in mano ad una ampia catena clientelare, che gestirà parte delle contraddizioni sociali scaturenti dalle trasformazioni imposte con l’automazione spinta dalla digitalizzazione e la marginalizzazione di interi comparti “non ri-convertibili” alla filiera green.

Nulla di più lontano da un modello di sviluppo auto-centrato, focalizzato a sopperire i bisogni della popolazione e a colmare le fragilità strutturali del nostro sistema-paese, emerse con forza durante la pandemia, in primis la mancanza di una pianificazione economica e di forti investimenti nel pubblico.

Una trasformazione che verrà pagata “a caro prezzo” dalla popolazione italiana, che dovrà restituire i prestiti contratti per imporre una gigantesca ristrutturazione, e con “riforme” tese ancora di più ad azzerare i residuali diritti e ormai scarse garanzie di cui godevano alcune figure professionali nel pubblico impiego e non solo.

È chiaro che attorno alla “spartizione” di questi più di 200 miliardi si è già aperta una lotta al coltello tra chi intende il più possibile appropriarsene, e su cui una screditata classe dirigente – economica, politica e sindacale – punta per rilegittimarsi e stabilire un nuovo “patto sociale”, che escluderà sempre più porzioni delle classi subalterne e impoverirà ulteriormente gli strati più bassi del “ceto medio”.

Si può dire con Gramsci, traslando i termini dal fascismo all’Unione Europea, che “l’UE ha rovinato il Paese”.

Vista l’inadeguatezza assoluta della nostra classe dirigente, che non trova una opposizione reale, sarà ancora compito dei comunisti e delle classi subalterne salvare il Paese dal baratro in cui sta precipitando con l’organizzazione, il conflitto di classe e una prospettiva antagonista all’attuale modello di sviluppo.

 

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