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Zingaretti se ne va, non sarà l’unico…

Come nelle saghe simil-nibelungiche che popolano la televisione d’inverno, eserciti politici sparsi nella pianura vengono spazzati via dall’alito dei Draghi volteggianti nell’aere…

Stavolta tocca al Pd, con il segretario Nicola Zingaretti, convinto alle dimissioni – a suo dire – dall’indegno spettacolo della lotta per le poltrone che caratterizzerebbe il suo stesso partito. Difficile crederci, vista la storia del Pd e dello stesso Zingaretti (uno che di poltrone e gestione amministrativa se ne intende), perciò sarà meglio evitare di farsi depistare.

Per capirci qualcosa bisogna alzarsi al di sopra del livello “fenomenico” espresso dalla più squallida classe politica dell’Occidente. Lo stesso terremoto, appena qualche giorno prima, ha scosso dalle fondamenta il Movimento 5 Stelle, con la conversione istantanea del suo “gruppo dirigente” dall’anti-draghismo al viva-draghismo europeista ed atlantico, e la contemporanea diaspora di una parte non secondaria dei suoi parlamentari, ora costituiti in “alternativa”.

Due punti fanno una linea, ci tocca ricordare, in geometria come in politica. Se appena appena si guarda più in là tutti possono notare che anche nella Lega gli equilibri non sono gli stessi di prima (e tre punti fanno un cerchio…).

Ora comanda palesemente l’”europeista” Giancarlo Giorgetti, che lascia volentieri a Salvini il ruolo del guitto davanti alle telecamere. Seduto nel “ministero delle rogne industriali” (lo “sviluppo economico” si occupa in realtà quasi soltanto di “tavoli di crisi”) ha ben altro a cui pensare, e molti equilibri interni all’imprenditoria – internazionale e non – da rispettare.

Perciò le dimissioni di Zingaretti sono comprensibili solo se collocate nel processo di smottamento del sistema politico italiano, messo in moto dal “governo di salvezza nazionale” a guida europea.

E’ sicuramente vero che “la base” di quel partito, con ancora parzialmente nel cuore la nostalgia per “la Ditta” (come veniva chiamato il Pci, comprese le sue involuzioni successive), ha sentito più “suo” un segretario che veniva da quella storia e che, soprattutto, aveva provato a risollevare lo straccio lasciato da Renzi inventandosi una pretesa “contrapposizione valoriale” tra centrodestra e centrosinistra. Buona per chiedere il “voto utile” ad ogni tornata elettorale, ma non rintracciabile negli atti di governo, sia a livello centrale che – in modo sfacciato – a livello locale.

Ed è altrettanto vero che i parlamentari oggi figurativamente rappresentanti il Pd sono quasi tutti dei “nominati” da Renzi, che non l’hanno seguito ma, forse, in modo concordato.

Dunque, il “povero Zinga” viveva come un re dimezzato, benvoluto dal suo “popolo” ma impossibilitato dalla corte a fare alcunché.

L’apparenza dell’”unità” sarebbe forse continuata anche a lungo (senza esagerare, certo) se non fosse caduto sulla politica italiana il meteorite Draghi. Ossia il commissariamento del Paese da parte dell’Unione Europea e, in parte, dal “nuovo corso” degli Stati Uniti.

Il governo con “tutti dentro” cancella molte pretese di “differenza valoriale” con la destra, sia moderata che estrema. Difficile, se non impossibile, presentarsi ad elezioni di qualsiasi livello agitando di nuovo il fantasma del “pericolo fascista” incarnato… dall’alleato Salvini.

Ma anche fuori dalla retorica elettorale, il “partito degli amministratori”, sia regionali che di città medio-grandi, non offre grandi possibilità di distinguere blocchi differenti (non diciamo “contrapposti”). Tra Bonaccini e Zaia, tra De Luca e Fontana, ecc, ci sono più sintonie che contrasti. Poi, certo, sono differenti le catene clientelari e gli imprenditori di riferimento. Ma neanche sempre…

Del resto il Pd si era caratterizzato nell’ultimo decennio – ma anche in quello precedente – come il “partito del sistema”, la “forza tranquilla” dell’establishment europeista, in grado di tenere insieme le “riforme” anti-popolari e i ceti “riflessivi” acculturati (la piccolissima borghesia delle professioni liberali, con una preferenza per quella cultural-intellettuale, fino agli insegnanti). E viveva quasi con imbarazzo l’etichetta di “sinistra”, utile il giorno delle urne e dimenticata il giorno dopo.

Ma “il sistema europeista” ha ora preso direttamente in mano le residue leve del comando politico-governativo. Dunque il Pd, com’era diventato, non serve più. E non soltanto lui, come si è visto con 5 Stelle e (prossimamente) con la Lega. Persino i nostalgici fascisti di FdI non stanno davvero all’opposizione (basta guardare il loro entusiastico applaudire i generali ai posti di comando), anche perché molto del loro “consenso strutturato” viene da gruppi che non amano stare fuori dai giochi e dai centri di spesa.

Ma se tutti – tutti – i partiti presenti in Parlamento sono diventati inutili, nel momento stesso in cui si sono messi al servizio di Draghi e della Ue, allora deve necessariamente iniziare un ridisegno generale del “sistema politico” nazionale.

Di sicuro, questo nuovo sistema è già ora – mentre si va ancora distruggendo quello precedente, tarda eredità della “seconda repubblica” e della stagione “populista” – segnato dalla prevalenza assoluta di una sola frazione del capitale: quella multinazionale, di dimensione e campo di interessi “europei”.

Contrariamente a quel che in genere si crede, anche “a sinistra”, la “borghesia nazionale” è ridotta a quella robetta che non ha la forza (il capitale, i soldi) per competere fuori dal mercato interno. E dunque si adatta al ruolo di “subfornitore contoterzista” (nei settori industriali), oppure ha provato a resistere nei vari livelli del capitale commerciale. Che è poi la parte che sta venendo spazzata via dalla gestione politica della pandemia (le chiusure riguardano solo questi settori, mai la manifattura, anche se ovviamente ci si contagia allo stesso modo).

Per capirci: una media impresa che ha – per esempio (ma esiste davvero, e con un marchio abbastanza noto) – la sede legale in Germania, paga le tasse in Olanda, un consiglio di amministrazione plurinazionale, l’amministratore delegato italiano e trasforma in uno stabilimento “italico” materie prime provenienti da Bulgaria o Romania… che borghesia è?

Di sicuro non nazionale, perché il suo business tiene conto dei trattati europei, delle legislazioni di diversi paesi, di differenti sistemi fiscali, di diversi costi del lavoro ed anche di differenti know how (che si modificano più lentamente nel tempo).

Quando parliamo insomma di “borghesia europea” abbiamo in testa quel tipo di imprenditoria che non ha più le caratteristiche del “padrone” e le movenze della “gestione familiare”, e tantomeno l’orizzonte limitato ai confini nazionali. Parliamo di un modo di fare impresa “de-territorializzato”, svincolato da rapporti e obblighi stringenti, pronto a smontare uno stabilimento qui per trasferirlo a 3.000 km di distanza.

E non si tratta più neanche di conglomerati di dimensioni immense (tipo Fiat/Fca ora fusa in Stellantis con Peugeot e Citroen). Basta molto meno, per agire e pensare da multinazionali…

Il capitale finanziario, inutile dirlo, è ancor meno legato agli ambiti territoriali; e anche il sistema bancario, negli ultimi 30 anni, sta limitando all’indispensabile i “presìdi territoriali”, riducendo filiali, personale, erogazione di prestiti.

Questo tipo di “padronato manageriale” oggi governa di fatto in Europa e in Italia. Questo tipo di borghesia pretende “riforme” disegnate sulla base dei propri esclusivi interessi. E avrà bisogno di una diversa classe politica, capace di conquistare silenzio-assenso, più che consenso, in nome di “Tina” (there is no alternative).

Via i “valori”, le “visioni”, gli interessi sociali differenziati da ricomporre attraverso rappresentanze politiche differenziate in partiti.

Via gli Zingaretti e i Salvini, insomma. Avanti gli amministratori obbedienti e i “maghi della comunicazione”.

P.s. Naturalmente, non essendo in quello schema prevista alcuna “rappresentanza politica di lavoratori e classi popolari”, proprio questa è proprio l’esigenza che andrebbe esaudita. Per via di conflitto sociale, perché nessun “mischione elettorale” può risolvere un problema di questa natura e portata.

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1 Commento


  • Daniele Patelli

    Pur essendo iscritto a Potere al Popolo auspico un congresso fondatore che unisca tutti i partiti comunisti presenti al momento fuori da qualsiasi istituzione, un incontro e uno stringersi le mani contro il nemico comune, dimenticando le piccole differenze e unendoci per salvare noi e le classi popolari prive di rappresentanza.

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