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Il “grande mischione” per la Terza Repubblica

Dopo una crisi durata 30 anni, la “Seconda Repubblica” si avvia a chiudere i battenti. Senza una seconda Tangentopoli, pare, ma del resto l’inconsistenza dal panorama politico – al contrario dei solidissimi partiti della Prima – non richiedeva misure così drastiche, da regime change in stile sudamericano.

Quella crisi della rappresentanza politica partorì un “senso comune”, ed anche un format per ogni nuova “forza politica”, riassunto nella frase “discesa in campo della società civile”, ovviamente contro “i professionisti della politica.

Poi questa fantomatica società civile poteva assumere il volto di Silvio Berlusconi o dei “girotondi”, quella di Umberto Bossi col suo seguito di padani selvatici con tanto di elmo e corna, oppure gli squinternamenti della “sinistra” sempre più vagamente declinata, i “campi larghi” che duravano lo spazio di un’elezione e un cambio di segretario, la “vocazione maggioritaria” al posto di uno straccio di progetto politico.

Fino all’irruzione del prodotto più “puro” di questa riduzione della politica all’opinione grezza dell’”uomo della strada”, senza qualità ed esperienza, né valori irrinunciabili: i Cinque Stelle, con la retorica dell’”uno vale uno” per qualsiasi compito, della potenza salvifica della Rete, i limite dei due mandati, gli absolute beginners al posto di comando.

Il fallimento finale di questo sistema politico, ovviamente esposto alla balcanizzazione perpetua da bande affaristiche senza orizzonte, ha lasciato campo aperto all’arrivo dell’Uomo della Provvidenza. Direttamente dalla poltrona di presidente della Bce a proconsole per l’Italia, visto che c’è da gestire – in piena pandemia – qualche spicciolo in prestiti per ridisegnare il modello di Paese secondo direttive europee, oltre a dover decidere 500 nomine nelle società pubbliche partecipate (e relative politiche di gestione o privatizzazione).

Assicurata così la governabilità di medio periodo – Draghi passerà direttamente alla presidenza della repubblica, l’anno prossimo, garantendo in totale otto anni di “vigilanza” – può partire la ristrutturazione anche del sistema politico e della rappresentanza.

La formalità della democrazia parlamentare – e solo quella – mal tollera l’unanimità perenne. I “governi di salvezza nazionale” servono appunto a sciogliere una situazione bloccata, ma non possono diventare la normalità. Pena l’emergere, prima o poi, di una vera opposizione a quel punto antagonista al sistema (non certo le bande raccolte dietro Giorgia Meloni & friends, scelta come “opposizione della corona” proprio per salvare le apparenze).

Il processo di rimescolamento generale della rappresentanza politica è partito il giorno stesso dell’insediamento di Draghi a Palazzo Chigi, con il terremoto interno ai Cinque Stelle (obbiettivo esplicito, per tre anni, di tutta la pressione dell’establishment). Il fatto che per tenerli momentaneamente insieme, e gestirne ordinatamente “la svolta”,  sia stato scelto Giuseppe Conte – uno dei “garanti europei” nei tre anni di governi “para-populisti” – non sembra nemmeno a prima vista un semplice caso.

Idem è accaduto per il pilastro politico più europeista che c’era: il Partito Democratico. Anche qui, la soluzione alle faide interne è stata trovata in un consolidato funzionario-intellettuale dell’estabilishment continentale, prontamente incensato da tutti i media al pari del neopremier. Pare che anche su questa scelta “unitarissima” sia stata rilevante la pressione di Sergio Mattarella. E ci deve essere un perché…

Allo stesso tempo è entrata in fibrillazione anche la micro-area degli “europeisti liberal-liberisti”, a lungo presidiata da radicali e ondivaghi di diversa estrazione. Per un verso “esplodono” le dimissioni di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova da +Europa, con toni giusto un filo più sguaiati da quelli usati da Zingaretti. Per un secondo si congelano le aspettative dei Calenda boys. Per un terzo avanza un “processo unitario” che ha chiaro per il momento soltanto il “federatore”: quel Carlo Cottarelli che da anni pontifica nelle trasmissioni di Fazio e Floris, dopo una lunga carriera nel Fondo Monetario Internazionale e un quasi-incarico da presidente del Consiglio durante le affannose trattative seguenti alle elezioni del 4 marzo 2018.

Un altro funzionario del grande capitale finanziario alla guida di una formazione politica? Un altro…

Di Forza Italia, cuore di destra della “prima Repubblica”, inutile parlare. Si attende solo che Berlusconi smetta di presidiare il bidone, poi ognun per sé…

Anche la Lega ha smottato pesantemente, in termini di governance interna. E’ evidente che la linea viene dettata da Giancarlo Giorgetti e dagli amministratori locali, tutti sotto botta di cordate confindustriali di seconda fila, ma rilevanti a livello territoriale. Può far pesare la sua antica “amicizia” con Draghi, nonostante una gioventù da neofascista con pessime frequentazioni.

A Salvini resta il ruolo di frontman televisivo, dichiaratore ossessivo h24 su qualsiasi argomento, dunque destinato a consumare la pazienza e l’attenzione generale fino alla completa indifferenza. Poi giù dalla torre anche lui.

A sinistra”, si fa per dire, l’attitudine e l’abitudine al “mischione osceno” è di lunga data. E non ha mai portato risultati, tantomeno degni di nota. Ma anche lì pulsa la coazione a ripetere, ed è salutare starne lontanissimi.

Ancora non è chiaro su che cosa si dovranno (e potranno) caratterizzare le future forze politiche in gestazione. Tutte dovranno essere rigorosamente “europeiste”, altrimenti Palazzo Chigi resterà per loro un sogno impossibile o un disastro annunciato (farsi eleggere e poi non poter fare quel che si è promesso costa decine di punti alle elezioni, sia che ti chiami Grillo, Salvini oppure Tsipras).

Dunque non ci sono distinzioni possibili sulle politiche economiche, le “riforme”, il welfare, le pensioni, la sanità, le politiche sociali, ecc. Muoversi su quei temi significa maneggiare capitoli di spesa molto rilevanti, su cui il controllo dell’Unione Europea è fortissimo e lo diventerà ancora più nei prossimi anni.

Restano i temi “a costo zero”, le riforme che si possono fare senza spendere granché. Un primo saggio lo ha dato proprio Enrico Letta, riesumando le parole jus soli e “voto ai sedicenni”, giusto per scaldare i motori della polemica con la ex destra e assicurarsi così una verniciatura “di sinistra” (una sorta di left washing, indispensabile per un vecchio democristiano liberista, abbastanza di destra da appoggiare la “riforma anti-costituzionale” di Renzi, poi bocciata con referendum).

Quindi una caratteristica delle future forze politiche potrà essere la differenziazione sui “diritti civili” e sulle narrazioni di accompagnamento. Ma nulla che riguardi le condizioni materiali di vita e riproduzione delle “vaste masse” della popolazione.

Una seconda caratteristica si è però già imposta: “basta con gli scappati di casa, largo ai competenti”. L’arrivo di Draghi ha sancito questo cambio di “narrazione” che liquida quella della “seconda Repubblica”. Niente più “società civile” direttamente sul proscenio, ma spazio soltanto ai funzionari con un solido curriculum di gestione amministrativa sulle spalle.

Anche in questo caso, i media avevano dissodato con cura il terreno, arruolando nomi di peso per “popolarizzare” un discorso che più elitario non si può. Vi ricordate quel duetto tra Gabanelli e Mentana?

La morte della politica a favore della “normale amministrazione di linee guida provenienti dall’alto” è la soluzione scelta da tempo, in incubazione fin dai tempi dell’antica Trilateral.

Ma ora deve prendere piede in ogni snodo rilevante dell’architettura istituzionale. Per esempio, vi sembra così casuale la scelta di Roberto Gualtieri come candidato Pd a sindaco di Roma? Un professore di storia, poi per anni funzionario dell’Unione Europea (non abbiamo “la fissa”, ma non ci possiamo fare niente se hanno tutti la stessa carriera alle spalle…), quindi ministro dell’economia, per gestire la capitale, i suoi problemi, i suoi conflitti, il suo debito…

Anche la tornata delle elezioni amministrative, in ottobre, ha questo rimescolamento della politica come motore e sfondo. Il rapporto con il governo Draghi e con l’Unione Europea è una discriminante davvero minima, ma anche quella decisiva.

O ci si muove per costruire un’alternativa di sistema a questo sistema che si centralizza per gestire una crisi devastante, oppure ci si accoda a una delle tante carovane di aspiranti poltronari pronti ad alzare la mano per votare delibere scritte altrove.

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1 Commento


  • giancarlo staffolani

    si va verso lo “Stato “neocorporativo liberista delle multinazionali”, governato in prima persona dalla tecnocrazia politica del grande capitale, i 5stelle “feticisti dell’algoritmo” ne sono stati l’acceleratore più o meno inconsapevole. In pratica il progetto prevede la cooptazione di “una parte” delle classi medie garantite nel modello di un nuovo “spazio vitale” euro-atlantico a Sud ed Est, da contrapporre anche militarmente al pericolo di “invasione” cinese e russo..

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