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Napoli, problemi della città e necessità di una Rinascita

Due attivisti di Potere al Popolo di Napoli si incontrano ad uno dei tanti presidi che si svolgono – anche e soprattutto in questo periodo di Pandemia – sotto la sede del Comune di Napoli, Palazzo San Giacomo e mentre degustano un caffè – in un pessimo bicchierino di plastica – si appassionano in una discussione sulla città, sugli effetti della crisi Covid, sulla necessità di un bilancio della consumata esperienza amministrativa di Luigi De Magistris e sulle prossime elezioni comunali.

A)

Michele Franco: Ciao Giuliano, come va? In questo periodo sembra un eufemismo chiedersi questa cosa ma riteniamolo un buon auspicio per noi e la nostra gente.

E’ un tempo difficile per la nostra bella Napoli. Gli effetti antisociali della Pandemia stanno esasperando tutte le già accentuate contraddizioni sociali dei nostri territori. Nuove povertà, nuove forme di emarginazione e inedite forme di solitudine individuale e collettiva si diffondono.

Napoli, la sua area metropolitana, ma oramai l’intera Campania, stanno pagando un costo alto in termini di aumento generalizzato delle diseguaglianze. Le varie (e confuse) modalità dei cosiddetti Ristori, messi in campo da Governo e Amministrazione Regionale, risultano insufficienti a fare da scudo all’incidere dei fattori di crisi lasciando scoperte intere fasce di popolazione.

Nonostante ciò e malgrado il clima di paura e smarrimento che si percepisce si sono – comunque – prodotte variegate modalità di resistenza collettiva e popolare che, seppur confusamente e con un andamento non lineare, attraversano il territorio partenopeo.

Nei mesi del primo lockdown sono state preziose le attività legate al mutualismo e al sostegno collettivo – messe in atto da associazioni, organismi di lotta popolari e dagli stessi compagni di Potere al Popolo – le quali hanno permesso a migliaia di famiglie di reggere al primo impatto della crisi.

Molto prima dei tanto sbandierati sostegni che De Luca ha agitato, su cui ha abbondantemente lucrato nel corso delle elezioni regionali, l’autorganizzazione popolare è stata in grado di lanciare un segnale di solidarietà vera verso i settori sociali meno garantiti.

Certo queste iniziative non sono risolutive dei problemi e né, ovviamente, possono sostituirsi alla necessità di battersi per un adeguato Welfare Pubblico ma – a fronte di una condizione materiale inedita scaturita dalla Pandemia – tali pratiche hanno segnato un punto politico di presenza degli attivisti nel vivo della complessità del corpo sociale.

Del resto in altri contesti storici anche attraverso queste forme di “solidarietà” si è contribuito, da parte delle organizzazioni del movimento operaio, alla crescita culturale e politica di fondamentali elementi di coscienza di classe.

Subito dopo l’estate è apparso evidente che le bufale di De Luca su “Campania Sicura” erano poco più di una trovata elettorale e sono emersi, drammaticamente, i ritardi, le inadempienze e l’irresponsabilità della classe dirigente del nostro paese la quale è stata incapace di porre rimedio a quella che è stata la “seconda ondata Covid”. Tra Ottobre e Novembre scorso la Campania e Napoli sono state travolte dalla Pandemia ed oggi (fine marzo 2021) non si intravede una via d’uscita.

Dai mesi autunnali fino ad oggi abbiamo conosciuto le sofferenze e i lutti che avevamo evitato nelle primavera scorsa e la Campania ha conquistato il triste primato di area territoriale dove la diffusione del virus è tra le più elevate del paese.

Non mi dilungo nella cronaca di questi mesi ma in ogni comparto della società – a partire dal grande carrozzone della Sanità – è emerso l’intrigato intreccio tra affari, politica, speculazioni e, persino, organizzazioni della criminalità organizzata.

Il “dato nuovo” è che questa volta i morti sono diverse migliaia!

Tale scenario che ha comportato il varo di nuove “zone rosse” e di crescenti limitazioni hanno provocato un variegato arco di reazioni a partire dalla serata/notte di “rivolta di popolo” attorno a Palazzo Santa Lucia dove una composita composizione di manifestanti reclamavano sicurezza economica, sussidi e quant’altro in grado di sopravvivere.

Certo tra quei manifestanti che confusamente affermavano il loro diritto alla vita c’era di tutto e non è emersa, purtroppo, una piattaforma rivendicativa chiara ma – almeno personalmente – ritengo che in quella serata, ma anche in altre forme di protesta che si sono sviluppate con modalità analoghe in vari posti della Campania, si è configurata una composizione sociale dove era marcata la presenza di quanti, a vario titolo, sono fuori da ogni strumento di ammortizzatore sociale e di Ristoro.

L’infinità delle forme di lavoro nero, atipiche, malsane e malpagate sono una presenza quasi maggioritaria nel cosiddetto lavoro autonomo che costituisce una quota rilevante della struttura produttiva della nostra città particolarmente negli ultimi anni quando i processi di turistificazione del tessuto urbano hanno plasmato questa nuova geografia economica della metropoli.

Da qui la giustezza delle ragioni sociali di quelle proteste ma anche – naturalmente – di tutte le iniziative che il sindacalismo conflittuale ha messo in atto in città. Una sequela di momenti di mobilitazione, in primis, sotto i principali ospedali della regione, a Palazzo Santa Lucia ed alle Prefetture ma anche a ridosso di quelle aziende che, approfittando della crisi, hanno attaccato il lavoro e l’occupazione con buona pace del “blocco dei licenziamenti” deciso dal governo.

Ricordiamo, però, che, al di là di quegli che sono stati gli sviluppi, anche noi – i compagni di Potere al Popolo – eravamo nel riot di quelle piazze d’Ottobre a respirare l’odore acre dei lacrimogeni cercando di stare dalla parte di chi lotta ma soprattutto per fare Inchiesta.

Ritieni quindi – caro Giuliano – che, malgrado tutto, abbiamo collettivamente esercitato, con tutti i limiti oggettivi posti dalla situazione, una funzione utile socialmente e – soprattutto – positiva in direzione della costruzione di una organizzazione popolare in grado di raccogliere, orientare, valorizzare e, tendenzialmente, rappresentare gli interessi della nostra gente?

Giuliano Granato: Credo che il punto di partenza sia riconoscere di essere immersi in una fase di transizione. La freccia del tempo si è spezzata. La narrazione neoliberista che ci parlava di “fine della storia” non descrive una realtà. Era un desiderio delle classi dominanti che oggi, a trent’anni dal libro di Fukuyama, è definitivamente naufragato.

Con la rottura della freccia del tempo, viene meno il futuro e si impone un eterno presente. Sparisce l’orizzonte della globalizzazione neoliberista ma le classi dominanti – a oggi – sono incapaci di prospettare un nuovo futuro. Quella spinta che per anni hanno avuto si è esaurita. È una crisi di egemonia profonda. L’esito non è scontato.

Perché parto da qui? Perché mi pare che anche la risposta delle istituzioni nazionali e, in subordine, di quelle locali, non si possa capire a fondo se non la si inseriamo in un contesto più ampio. Per dirla in maniera sintetica: dietro ai bonus, alle misure emergenziali, ai Ristori e ai “sostegni” non c’è stato finora altro che la necessità di tamponare il presente, di mettere una pezza.

Con un occhio alla dimensione sanitaria, uno a quella economica, ma un terzo – che spesso siamo noi stessi portati a sottovalutare – a quella politica. Le classi dominanti hanno paura, ne sono profondamente convinto. Per questo motivo sono molto attente a tenere sotto controllo qualsiasi segnale di possibile sovversione, monitorano qualsiasi scintilla, provando a disinnescarle prima che si possa correre il rischio dello scoppio di un incendio che non è detto abbiano le capacità poi di spegnere.

Per questo, nella fase che viviamo, assistiamo a “zone rosse” che sono tutt’altro che tali, alla segmentazione delle risposte alla crisi, con la continua sovrapposizione di nuove divisioni a quelle pre-esistenti, nella speranza che tutto ciò possa essere sufficiente a creare steccati invalicabili tra categorie differenti.

Da questo punto di vista, dobbiamo registrare che nelle mobilitazioni che pure ogni giorno hanno luogo contro questa o quella misura, per rivendicare questo o quello, in effetti pare di trovarsi dinanzi a mondi incapaci di comunicare – non parliamo poi di allearsi. È capitato più volte di trovarsi dinanzi a piazze in cui si ritrovavano diversi gruppi sociali, differenti categorie, che anche dal punto di vista spaziale rappresentavano bene l’incapacità di stare insieme.

Mancano oggi delle idee-forza intorno alle quali si possa costruire una battaglia politica di massa. Le uniche che sono apparse, e che non hanno avuto fortunatamente capacità agglutinatrici, sono parole d’ordine profondamente reazionarie.

L’unica eccezione parziale è proprio quella delle piazze di Ottobre che richiamavi.

In quell’occasione abbiamo vissuto una fiammata tanto alta e rapida quanto in realtà breve. A partire dall’opposizione alla “zona rossa” di De Luca si è coagulato un mondo pieno di contraddizioni intorno alla parola d’ordine “tu ci chiudi, tu ci paghi”, che provava a superare la contraddizione salute/economia, che invece è la diade su cui si fondano tanto i No Vax quanto i sostenitori di ogni possibile misura governativa.

Aveva per certi versi la potenzialità di trasformarsi in rivendicazione di autonomia delle nostre vite rispetto all’apparato produttivo.

Tuttavia, se oggi ci guardiamo intorno, pare che quella mobilitazione non abbia sedimentato molto. C’è la scia repressiva che sta colpendo decine di persone. Ma in termini di spazi aperti, di nuove riflessioni e nuove opzioni organizzative mi pare si sia mosso poco o nulla.

Si potrebbe obiettare che è passato ancora troppo poco tempo. Io, però, ritengo che a Ottobre abbiamo assistito a una “rivolta” e non alla prima fase di un ciclo di lotte. Un fuoco di paglia, presto spentosi ed esauritosi.

E allora, visto che le rivolte non sono foriere di futuro, non sarebbe meglio starne fuori?

Se si vuole solo osservare il mondo, forse sì. Ma se si ha il progetto di trasformarlo, allora no. Almeno fino a quando hanno le caratteristiche e la composizione di quelle dello scorso ottobre: di fronte all’egemonia di una piccola borghesia che chiedeva in sostanza di poter proseguire a fare profitti, c’era una componente – per lunghi tratti al traino dell’egemone – che pian piano ha iniziato a riconoscersi come soggetto autonomo rispetto a quello dei proprietari: parlo di camerieri, barman, ambulanti, lavoratori subordinati di diverso tipo, in molti casi a nero o a grigio e, quindi, maggiormente esposti ai danni della pandemia, non avendo a disposizione alcun bonus o ristoro, essendo di fatto degli “invisibili”.

È qui che credo entri in gioco il ruolo dell’organizzazione: fare inchiesta, come dici tu. Ma anche permettere il mutuo riconoscimento di soggetti sfruttati ma divisi, la differenza di interessi rispetto a chi fino a quel momento si è ritenuto un alleato e, possibilmente, la capacità di far emergere parole d’ordine e prospettive realmente emancipatrici.

Quando parlo di Inchiesta, tuttavia, non parlo solo a quella che abbiamo il dovere di condurre nelle piazze. Inchiesta è anche comprendere i meccanismi di ristrutturazione del capitale, quelli che sfuggono alle statistiche e alle indagini ufficiali.

Scopriamo, così, che molte aziende del nostro territorio stanno sfruttando la cassa integrazione per scaricare i costi della forza-lavoro sullo Stato, che siano in difficoltà o meno, e – nel frattempo – stanno già lavorando a un futuro abbassamento del costo del lavoro tramite un netto peggioramento delle “regole di ingaggio” della forza lavoro.

L’Inchiesta è una parte del nostro lavoro. La base, oserei dire. Ma se non la ributtiamo nella pratica avremo un percorso monco. E qui torno all’inizio del ragionamento: riconoscere di trovarsi in una fase di transizione, significa ammettere che un vecchio mondo sta per lasciare il passo a un mondo nuovo.

La dialettica presente/futuro è assolutamente centrale e il nostro compito dev’essere quello di individuare nell’oggi i semi del domani. In ogni sperimentazione, in ogni risposta a un bisogno urgente e immediato dobbiamo cercare di trovare gli elementi per aprire nuove strade.

Significa, ad esempio, provare a costruire “fiducia” in sé stessi e nell’azione collettiva in una società che colpevolizza l’individuo fino a suscitare patologie psichiatriche e che allo stesso tempo induce a pensare che l’unica possibilità sia la realizzazione individuale. La competizione e non la cooperazione.

Non basta declamare i giusti principi, bisogna praticarli e divulgarli attraverso le battaglie e le vittorie che pure riusciamo a strappare, anche in tempi tanto difficili.

Di fronte alla frammentazione delle prospettive future, noi abbiamo un compito titanico: sconfiggere l’ansia e l’angoscia che si stanno impadronendo di intere generazioni e restituire la voglia di immaginare e conquistare il futuro. Penso soprattutto ai più giovani, con i quali dobbiamo imparare a usare codici completamente diversi, pena l’assoluta estraneità a un mondo che sempre più viene gettato ai margini.

Questo è un aspetto cui tengo particolarmente, perché l’interesse per gli aspetti più strutturali non può condurre a dimenticarsi delle molle per l’azione, che spesso stanno in sedimentazioni anche culturali che poggiano su anni e anni di inferiorizzazione e costruzione del subalterno.

B)

Michele Franco: Ad Ottobre si svolgeranno le elezioni comunali a Napoli. Da 10 anni nella nostra città è insediata una Amministrazione, costruita attorno alla soggettività di Luigi De Magistris, la quale è stata, sicuramente, una esperienza complessa su cui dovremmo tornare ad approfondire, in maniera più analitica, per elaborare un bilancio compiuto ed articolato oltre ogni forma di superficiale impressionismo.

Ora, per le esigenze di questa nostra conversazione mi concentrerò su alcuni aspetti più macroscopici. A me sembra evidente – ma credo anche anche agli aficionados di Dema – che negli ultimi anni la “spinta propulsiva” di questa Amministrazione ha esaurito le sue potenzialità.

Risultando così sostanzialmente incapace ed incoerente, anche rispetto alle sue stesse dichiarazioni pubbliche, nel far fronte alle sfide con il Governo e la Regione attorno a quegli snodi materiali (la questione Debito e il Patto di Stabilità, la necessità dello sblocco delle Assunzioni e le questioni legate alla ripubblicizzazione di consistenti settori dell’apparato comunale) che, di fatto, sono stati i fattori che hanno strangolato finanziariamente l’azione amministrativa facendo, oggettivamente, lievitare il malcontento, a partire dalle zone periferiche della città, contro Palazzo San Giacomo e la stessa figura di De Magistris.

Tante volte come compagni ed attivisti politici, sociali e sindacali abbiamo raccolto gli Appelli alla mobilitazione che arrivavano dal Sindaco (per onestà intellettuale è bene evidenziare che molto spesso sono state le tante iniziative di lotta prodotte in città a mettere in risalto queste incongruenze su cui De Magistris operava una sorta di sovra/determinazione politica e di immagine) affinché si aprisse una vera e propria Vertenza con il Governo.

Ma – periodicamente – queste indicazioni di mobilitazione si sono arenate attorno alle illusione (di De Magistris e del suo enturage) di raggiungere compromessi accettabili per la città. Di volta in volta i vari Napolitano, Bersani, Fico, Conte e altri soggetti di tale levatura istituzionale sono stati indicati come le personalità, che dai loro incarichi governativi, si sarebbero impegnati per affermare un “compromesso dinamico per salvare la città”.

Il tutto mentre sul versante delle varie questioni (dal Trasporto Pubblico Locale alla gestione/riorganizzazione delle Aziende Partecipate fino alle “storiche emergenze cittadine” da Napoli Est al Porto passando per l’area di Bagnoli/Coroglio) l’azione amministrativa arrancava, disattendendo lo stesso programma elettorale di Dema ed aprendo la strada a dinamiche di strisciante privatizzazione e di nuove soglie di ristrutturazione urbanistica e territoriale.

Un cortocircuito istituzionale e materiale che ha contraddetto quanto agitato in campagna elettorale, con le rivendicazioni delle varie Vertenze dei movimenti di lotta, delle associazioni indipendenti e di quella parte della città che ha sempre appoggiato Luigi De Magistris confidando in una rottura vera non solo con l’affarismo e la corruzione, ma anche con la logica della centralità del mercato e dell’aziendalizzazione del Comune e dei Servizi.

Ci troviamo ora dinnanzi ad una Amministrazione che nel corso degli anni ha operato un numero incredibile di rimpasti e di sostituzioni di Assessori. Le “maggioranze politiche” sono state nelle disponibilità di personaggi improbabili che – spesso – hanno “abbandonato la nave che affonda” passando con De Luca, con forze apertamente di destra e rappresentando, nel Consiglio Comunale ed in città, un tasso di rivoltante trasformismo in cui l’unico contendere era ed è il micro/potere personale di questi soggetti e della loro comitiva di amici.

Tutte le scelte strategiche immaginate, ogni progetto di città futura, ogni idea di sviluppo sostenibile dell’area metropolitana e un intero patrimonio di aspettative – ideali, sociali e politiche – che si erano addensate attorno a questa Amministrazione (in tutte le due consiliature) sono state opacizzate, svilite e disperse sull’altare della governance a tutti i costi, dell’equilibrismo politico impossibile e del piccolo cabotaggio attorno all’occupazione di qualche strapuntino in Consiglio Comunale, in qualche Municipalità o nelle pieghe di qualche Consiglio di Amministrazione delle Aziende Partecipate.

Insomma – e lo dico da compagno che con i suoi compagni ha partecipato attivamente alla campagna elettorale di Luigi De Magistris – siamo giunti al capolinea di una esperienza e al suo testa/coda politico-programmatico.

Per quanto mi riguarda questa valutazione politica non attiene a Luigi De Magistris in quanto individuo soggettivo, ma investe tutto l’arco dell’operato di una compagine amministrativa e delle forze che ne sono state e ne sono partecipi, le quali non sono state – assolutamente – in grado di dare voce, forza e rappresentanza all’ansia di cambiamento e al mandato popolare che avevano ricevuto nei due passaggi elettorali.

Tutto da buttare? Non si tratta di buttare giù dalla torre il buon Giggino ma credo che – come Potere al Popolo – dobbiamo porci concretamente l’obiettivo di costruire, nel prossimo passaggio elettorale comunale, una presenza sia nella competizione per Palazzo San Giacomo ma anche nelle 10 Municipalità della città a cominciare da alcune significative periferie.

Abbiamo le compagne e i compagni adatti, provenienti da lotte, esperienze associative, sindacali, dal mondo del lavoro in tutte le sue sfaccettature, dalla scuola e dal volontariato. Abbiamo dalla nostra anni di impegno sociale di base nei quartieri e nei movimenti di lotta dove abbiamo declinato tutti i temi della moderna sofferenza metropolitana e, particolarmente, abbiamo dalla nostra un profilo politico ed una prassi indipendente.

Credo che – al cospetto delle questioni legislative, finanziarie e di indirizzo economico – che investiranno Napoli (e la stessa ampia Città Metropolitana) Potere al Popolo può svolgere, adeguatamente, la sua funzione nel prossimo Consiglio Comunale.

Ti dico – a scanso di fraintendimenti, essendo un compagno vintage – che non dobbiamo ritenerci autosufficienti per questa sfida e che dobbiamo testardamente ricercare il massimo di convergenza e di unità programmatica possibile con quanti sono interessati ad affermare l’idea/forza della Città Pubblica. Dobbiamo, quindi, impegnarci lealmente con organizzazioni, forze politiche e sociali e con tutti coloro – in maniera collettiva o individuale – che vogliono e vorranno cambiare rotta in città.

Le discriminanti a cui penso (ma, forse, è meglio definirli i punti programmatici di unità possibile) sono quelli che attengono all’opposizione al Governo dell’Union Sacrè di Mario Draghi e alla rottura con il Partito Democratico ed ogni suo surrogato, specie in salsa napoletana.

Il programma poi è già dentro il nostro agire collettivo quotidiano e dovrà, sicuramente, arricchirsi con le competenze e il contributo di tutti coloro che vogliono – per davvero – la rinascita della nostra città, del Sud e la difesa degli interessi della nostra gente.

Del resto – caro Giuliano – se alle scorse elezioni regionali, svolte sotto i colpi dell’offensiva demagogica di De Luca e mentre la pandemia cresceva, attorno alla tua figura e a Potere al Popolo abbiamo raccolto un dignitosissimo 2,7% nonostante la presenza di un altra “lista alternativa”e di una “sinistra per De Luca”, vuol dire che esiste una base materiale da cui ri/partire per far entrare la voce degli interessi popolari a Palazzo San Giacomo.

Infine mi pare che la buona riuscita dell’assemblea di Potere al Popolo, svolta in presenza, alla Galleria Principe di Napoli la sera prima dell’entrare in vigore della Zona Rossa è stata un viatico positivo, ma anche la registrazione concreta che una comunità di attivisti (sicuramente con ancora problemi di crescita e di definizione politica) può continuare ad alimentare una speranza e una prospettiva di riscatto umano e sociale in questa nostra straordinaria città.

Cosa pensi di questo mio – sommesso – ragionamento?

Giuliano Granato. Concordo con quanto dicevi in premessa: arrivati a questo punto, dopo 10 anni di amministrazione De Magistris, è venuta meno la “spinta propulsiva” di un’esperienza che non ha avuto la capacità di farsi né progetto né organizzazione. Siamo ancora pienamente immersi in essa per comprenderne fino in fondo l’eredità, ma alcuni elementi possono essere evidenziati.

In particolare mi interessa andare a capire quali siano stati i limiti contro cui si è andata a sbattere l’Amministrazione partenopea che pure, come ricordavi, ha avuto il merito e il coraggio di scelte di rottura con quelle che l’avevano preceduta, ma anche col quadro nazionale che si è imposto nello stesso periodo.

Escluderei subito la categoria del “tradimento”, che è propria della morale più che della politica. De Magistris non ha “tradito”, piuttosto – sotto tanti punti di vista – ha fallito. Provo a concentrarmi su un paio di questioni più squisitamente politiche.

Quando hai un programma di rottura e per tanti versi di natura “trasformativa”, devi dare per scontato che ti troverai a fronteggiare un fuoco di sbarramento terribile. Se attacchi le forme di potere che si sono costruite nei decenni sul territorio non puoi pensare che chi le esercita se le lasci sottrarre/distruggere senza colpo ferire. Ti combatteranno in ogni modo possibile, da quelli più puliti a quelli più sporchi.

Accade ogni giorno in ogni angolo del pianeta ed è avvenuto sicuramente anche con l’esperienza De Magistris. Per essere chiari, non c’è solo un’opposizione che deriva da una coscienza soggettiva dei detentori di potere, che comprendono che rischiano di perdere posizioni, vantaggi e privilegi e, conseguentemente, cercano di abbatterti. No, c’è anche un’opposizione più silente, più sotterranea, ma più strutturale da parte di chi nei fatti si mostra “conservatore” dell’ordine costituito.

C’è un potere della struttura che insorge contro le ipotesi di profonda trasformazione ben al di là della volontà esplicita degli attori in gioco. Se la pensassimo diversamente avvalleremmo la tesi di chi sostiene che basti cambiare il personale politico per produrre una vera rivoluzione.

Continuo a essere convinto – e, dal mio punto di vista, l’esperienza De Magistris è ulteriore testimonianza di questa verità – che il problema non sia semplicemente quello di chi conduce la vettura, ma la vettura stessa. Se si vuole operare una vera trasformazione, dunque, va cambiata la vettura.

C’è chi pensa che occorra portarla immediatamente allo scasso e sostituirla con una nuova e chi, invece, reputa che quest’opzione non sia oggi sul tavolo, per cui c’è bisogno di cambiare un pezzo dopo l’altro, con pazienza ma sempre tenendo chiaro in mente che l’obiettivo finale è la trasformazione complessiva e non un mero maquillage.

Il tema della partecipazione, per entrare nel concreto, si pone come un’esigenza: qual è la forza che può mettere in campo un progetto di trasformazione dell’esistente che alle spalle non ha grandi sponsor o potentati? La forza dei numeri, che – però – non sono solo quelli delle urne. Anzi, quello è un passaggio, se vogliamo, secondario.

La questione fondamentale rimane quella della mobilitazione costante e organizzata di pezzi di società pronti anche ad arrivare e a sostenere lo scontro con chi difende i poteri storicamente impostisi nella città. La partecipazione, per dirla diversamente, non è solo “giusta”, ma necessaria a qualsiasi progetto voglia per davvero sfidare chi conta nelle nostre società.

Da questo punto di vista la tensione tra istituzionalizzazione e autonomia è forte. Anche perché chi è costantemente mobilitato, chi ha sviluppato un certo know-how, in un’epoca in cui tremenda è la crisi dei partiti tradizionali, sono i movimenti sociali. La soluzione non è la sussunzione tout-court nell’assetto istituzionale, ma, certamente, da parte di un’istituzione che vuole davvero abbattere barriere ci dovrebbe essere un progetto di cessione di sovranità alle organizzazioni popolari, ai cittadini organizzati.

I movimenti sociali non possono essere considerati mere cinghie di trasmissione del consenso o reti da cui cooptare leader. Pena l’indebolimento se non la distruzione degli stessi movimenti che, invece, sono l’argine da difendere con maggior forza.

In questo non c’è solo l’insegnamento dell’esperienza partenopea, ma anche quello delle esperienze latinoamericane, con l’autocritica forte di chi ha denunciato di aver cooptato interi movimenti sociali per trasporli nella gestione statuale, contribuendo in questo modo al venir meno di un potere popolare fuori dalle istituzioni che era stato capace di metterli su quegli stessi governi.

In secondo luogo, vorrei toccare il tema della risposta ai bisogni della popolazione. Il primo obiettivo di chi governa, dal livello nazionale a quello locale, dev’essere quello di dare soddisfazione alle necessità del proprio popolo. È chiaro che non è semplice questione di volontà. Non credo che questa facesse difetto all’amministrazione De Magistris. E, in realtà, credo anche che in alcune sue fasi abbia avuto il coraggio di inventarsi gli strumenti affinché quei bisogni popolari fossero soddisfatti e non dovessero invece essere sacrificati sull’altare di un apparente buon senso e del rispetto di vincoli normativi e/o di bilancio.

Tuttavia, in quest’anno elettorale, emergono i limiti di una grande città in cui la quotidianità di centinaia di migliaia di persone è messa a dura prova da un sistema dei trasporti con enormi falle, disoccupazione, lavoro povero e povertà che stanno esplodendo (e che vanno ben al di là delle prerogative del primo cittadino), verde pubblico che ci pone in coda alla classifica italiana per verde disponibile pro-capite, una questione abitativa mai risolta, ecc.

Sto seguendo il dibattito – stucchevole – di questi mesi sui principali quotidiani cittadini. Non entrerò nel vivo della querelle sul nome del prossimo candidato sindaco, ma su quello del suo profilo sicuramente.

In molti si è fatta largo la convinzione per la quale il prossimo inquilino di Palazzo San Giacomo debba essere un ottimo amministratore, meno politico e più manager. È una logica che respingo con forza. Anzi, a mio parere, anche nell’azione amministrativa non può mancare una visione politica di lungo periodo.

Il presente non può schiacciare il futuro. In ogni azione ci deve essere un seme di futuro, così che mentre si migliora la vita nella nostra città si costruiscono i presupposti per una trasformazione più radicale di ogni ambito della nostra esistenza.

Penso ai trasporti: a De Magistris va il merito di aver finora respinto le sirene della privatizzazione. Tuttavia, la situazione è difficile, si parlava di raggiungere standard da Tokyo ma assomigliamo sempre più a New Delhi. Dinanzi a tutto ciò è facile per gli amanti del privato soffiare sul fuoco della cessione a privati della ANM e dell’universo della rete del trasporto pubblico locale.

Come si supera la situazione? Facendo pulizia all’interno, anche in maniera radicale. Evitando che ci possano essere le disparità che ancor oggi si vivono all’interno dell’azienda, con una divaricazione tra stipendi e emolumenti di alcuni manager e briciole per gli addetti alle pulizie, per dire dell’ultimo anello della catena di appalti che pure vive nel mondo del pubblico.

<E, però, non credo basti. Serve avere il coraggio di porsi come attore al di là della stessa città e anche della enorme area metropolitana. Bisogna invece ragionare – anche se dallo scranno di sindaco – dell’intera filiera del trasporto pubblico locale: dalla produzione di autobus, tram e tremi fino alla circolazione nelle arterie della città, magari garantendo per davvero una priorità per i mezzi pubblici rispetto a quelli privati.

Il che significa ridisegnare la città all’insegna del modello delle “città dei 15 minuti”, quelle, cioè, in cui ogni cittadina/o dista non più di 15 minuti dai servizi essenziali e quotidiani. Ovviamente si tratta di un orizzonte cui tendere, ma considerato il punto di partenza non è facile raggiungerlo nel giro di qualche anno.

Inoltre, credo che la scadenza elettorale sarebbe un ottimo spunto per ragionare su cosa sia Napoli. All’inizio del Novecento, dinanzi a un Nicola Amore che voleva farne località turistica per classi agiate, si scelse il modello di una città con pezzi importanti di industria, sebbene sempre finanziata dallo Stato e dalle casse pubbliche, in presenza di capitalisti parassiti e straccioni.

A un secolo di distanza sembrava che la nuova industria fosse quella del turismo. Il boom registrato tra il 2008 e il 2018 aveva fatto credere a molti che lì si celasse un futuro migliore. Peccato che il fenomeno non sia stato quasi governato, che la ricchezza portata da 10 milioni di turisti (dato del 2018) sia rimasta attaccata alle tasche di pochi e che, invece, per la maggioranza dei figli della nostra terra il turismo si sia presentato con la faccia del lavoro nero, grigio o comunque precario, per lunghe lunghissime ore.

Con l’irruzione sulla scena del Covid-19 abbiamo constatato la fragilità di un sistema completamente imperniato sull’elemento esogeno: senza i flussi turistici, il turismo è crollato, il settore è in una tragica crisi, la disperazione si è impossessata di molti.

Oggi, nel 2021, qual è quindi il futuro di Napoli? È una città commerciale? Bene, allora centrale diviene il porto che, invece, ancor oggi è quasi monopolio di qualche brand di rilevanza internazionale che persegue interessi privati e non quelli pubblici.

È una città in cui l’industria ha ancora posto? Dalle risposte istituzionali alla decisione della Whirlpool di chiudere lo stabilimento di Via Argine, non mi pare sia quella la direzione intrapresa dalla classe dirigente del nostro territorio.

Può forse essere una città della ricerca? In fondo abbiamo una delle più grandi università europee, con settori di assoluta eccellenza, una città giovane in cui la voglia di riscatto è forte e può essere incanalata in progetti che potrebbero riverberarsi su tutto il territorio e produrre benessere e futuro per la nostra terra.

In tal caso, però, il sindaco di Napoli dovrebbe sfidare assetti precostituiti, una divisione del lavoro interna al nostro stesso Paese in cui al Sud vengono lasciate solo attività di logistica o di terziario arretrato.

Ecco, una delle sfide del prossimo sindaco di Napoli dovrebbe essere quella di rideclinare un nuovo Meridionalismo, senza alcuna nostalgia per un passato mitizzato ma tutt’altro che mitico, e da costruire dall’individuazione di quelli che già oggi possono essere considerati punti di forza del nostro territorio.

Il fatto stesso che Potere al Popolo in questa città riesca a registrare consensi significativi, anche se sicuramente insufficienti alla sfida che abbiamo davanti, il protagonismo di tante altre realtà sociali e sindacali, la stessa anomalia delle giunte De Magistris, dimostra che probabilmente qui da Napoli può partire la rottura di un anello della catena della subalternità al Governo Draghi e alle scelte neoliberiste del PD.

Insomma, Napoli può parlare all’Italia ma, aggiungo, all’intero bacino del Mediterraneo. Serve studiare, serve visione, ma serve anche costruire forza. Camminando, domandando, proponendo.

Napoli, giardinetti antistanti Palazzo San Giacomo

30 marzo, 2021

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