Menu

Genova. Nuova università liberata

La richiesta di un tavolo di trattativa con il rettore incontra fin da subito l’ostacolo del temporeggiamento. Dopo quasi una settimana di silenzio, Delfino interviene con una mail in cui si specifica che «ad occupazione terminata» una delegazione del collettivo composta da tre persone potrà essere ricevuta in sede di rettorato mercoledì 12 maggio.

La nostra risposta non può che essere questa: è per noi necessario esporre le richieste maturate durante l’occupazione prima del termine della stessa. Chiediamo dunque di mantenere l’incontro nel giorno e nell’orario proposto presso la sede del DISFOR, di fatto confermando la nostra volontà e disponibilità al dialogo.

Poche ore dopo il rettore ci comunica che «con rammarico» prende atto del nostro «rifiuto».

L’ipotesi di un dialogo è negata dal rettore che con ogni evidenza sembra preoccuparsi solo di termini e condizioni che pongano fine all’occupazione, consapevole che sedersi ad un tavolo qui, al DISFOR, significherebbe riconoscere due cose che non è disposto ad accettare.

Che non siamo un gruppo informale che ha scelto di occupare un edificio dell’Università con rivendicazioni vaghe, per poi rompere (vandali!) un vetro ed una porta. Significherebbe riconoscere ciò che ha realmente abitato questo luogo da ormai più di tre settimane: il fermento di idee e corpi di una generazione che per troppo tempo ha sofferto senza avere la possibilità di comprendere i reali motivi del proprio dolore.

Sedersi al tavolo con noi gli richiederebbe di elevarsi ad un piano altro di confronto, quello che contrappone contenuti politici.

A dire il vero, ieri non aspettavamo una risposta così diversa, consapevoli che a risponderci con il suo rifiuto è lo stesso Delfino capace di affermare, il primo giorno d’occupazione, di non rivestire un ruolo politico e che l’Università non ha niente a che fare con la politica, che il suo dovere è quello esclusivo di amministrare.

Ecco emergere quella retorica manageriale ed aziendalistica cui Delfino, da buon confindustriale, si appella. È la stessa retorica che affida a tecnici e banchieri l’amministrazione di uno Stato, facendo credere che l’allocazione delle risorse sia atto neutro e scevro da precise prese di posizioni, che fanno precisi interessi. Lo vediamo in modo chiarissimo nel nostro contesto, quello universitario.

Quando Delfino ci disse che il compito dell’Università è di produrre cultura, diceva una mezza verità. L’Università di Genova produce, è vero, ma non cultura, perché di cultura non si può parlare quando i fondi per la ricerca vengono stanziati con rigorosa selezione per progetti in diretto collegamento con il sistema produttivo, con settori privilegiati in cui la produzione di competenze specifiche viene copiosamente sostenuta dalle casse dello Stato e finalizzata alle logiche del mercato neoliberista e di investimento di capitale.

Chiediamo che il rettore palesi la sua scelta di campo in merito a questioni fondamentali della politica universitaria. È scomodo, ma è questo il suo compito.

Delle due l’una: condannare il nostro ateneo a recepire sempre meno fondi e soffocare sotto il peso dei criteri meritocratici dell’ANVUR, o richiedere che siano diverse le modalità attraverso cui questi vengono destinati alle Università; schierarsi apertamente a favore di un’Università d’élite o sgravare di oneri economici insostenibili coloro che non possono permettersi di studiare, assumendosi la responsabilità di non far quadrare i bilanci se questo significa ridurre in miseria una generazione.

La sua scelta già c’è, ma si nasconde dietro l’atteggiamento di buon amministratore. Il rettore parla il linguaggio della macchina, presentandosi come un ingranaggio che risponde a logiche che gli sono imposte, a protocolli che non si sa chi ha scritto. È perfettamente coerente, ma profondamente svilente per il suo ruolo e drammaticamente ingiusto per chi da quelle stesse logiche risulta schiacciato ed oppresso.

Non è stato un caso, allora, che in queste tre settimane siano qui accorsi lavoratori e lavoratrici precari e precarie, che l’Università non hanno mai avuto modo nemmeno di iniziarla: sono arrivati di corsa, capendo che la nostra lotta è la loro lotta – quella contro la macchina senza volto che saccheggia le nostre esistenze.

C’è un errore gravissimo nella tattica di Federico Delfino, quello di imporsi a chi nulla ha da perdere.

Se il sentimento che si vuole trasmettere è quello della paura la nostra risposta sarà tutt’altra, perché per troppo tempo la nostra generazione è stata ricattata e oppressa. Non chineremo la testa.

Per ogni volta che siamo stati soffocati dalla precarietà, questa volta non molleremo. Per ogni volta che abbiamo dovuto compilare una rinuncia agli studi. Per ogni volta che abbiamo dovuto firmare un contratto di lavoro senza diritti. Per ogni volta che ci siamo trovati a dover assumere psicofarmaci, perché avete scelto di crescerci come individui atomizzati e soli. Per ogni volta che abbiamo accettato di prendere due euro in nero all’ora. Per ogni volta in cui ci è stato impedito di organizzarci. Per ciascuna di queste volte la risposta che diamo è una sola: lotta politica.

Questa occupazione sarà l’inizio di tutto.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *