Arrivati ormai a due settimane dalla fine dell’anno scolastico, è giusto chiedersi come questo si chiuderà e in quali condizioni inizierà il prossimo.
Su come le scuole stiano lavorando in relazione alla pandemia, è difficile tracciare un quadro unitario, in quanto esistono sensibili differenze tra gli ordini di scuola, le zone geografiche e gli stessi singoli istituti che, come è noto, godono di facoltà organizzativa in base all’autonomia scolastica.
Tuttavia, in linea generale, si può rilevare che si è ben lontani da una situazione normalizzata: alcune scuole lavorano totalmente in presenza, altre alternano settimane in presenza e altre di didattica a distanza, mentre alcune scuole devono fare ancora i conti con casi di positività e conseguenti quarantene che frammentano il lavoro di insegnanti e studenti.
Di fronte a questa situazione tanto difficile, è abbastanza singolare che una sola cosa appaia assolutamente intatta e non modificabile: il rito della valutazione di fine anno. Anche in questo caso, la situazione è difficilmente generalizzabile, ma ciò che è certo, a livello nazionale, è che quest’anno gli studenti non potranno fruire di alcuna disposizione che preveda, come l’anno scorso, una sorta di passaggio d’ufficio alla classe successiva.
Eppure, l’attuale anno scolastico si è svolto in condizioni anche peggiori del precedente, poiché le difficoltà sanitarie e didattiche lo hanno attraversato per interno e non solo negli ultimi mesi. Da quando il governo ha decretato la ripresa dell’attività in presenza (che nelle scuole medie superiori, le più coinvolte nel problema delle ripetenze, non è quasi mai totale) gli studenti sono stati travolti da una quantità inusitata di compiti in classe e interrogazioni volte alla valutazione di fine anno.
In qualche istituto che alterna didattica a distanza e in presenza, la prima viene dedicata alle lezioni, la seconda ai momenti di verifica e valutazione. In più, a seconda delle classi e degli istituti, molti studenti hanno dovuto sottoporsi anche ai test INVALSI e PISA, inopinatamente imposti in un momento che avrebbe consigliato di soprassedere.
Purtroppo, a dettare le scelte è l’ ossessione della valutazione, ormai elemento dominante della scuola italiana aziendalizzata e tecnocratica, imposta in una versione che è più misurazione che non valutazione. In pratica, al termine di un anno scolastico svolto in condizioni estremamente difficili e tormentate, a volte traumatiche, ci potrebbero essere studenti bocciati o gravati di debiti formativi senza avere avuto un insegnamento regolare e dai ritmi normali.
Agli stessi studenti sarà comunque offerto il Piano Scuola Estate che nelle dichiarazioni del Ministero dovrebbe restituire “quello che più è mancato in questo periodo”, cioè “la socialità, la proattività, la vita di gruppo”. Naturalmente, tale piano dovrà anche offrire corsi di recupero nella materie ritenute “importanti”: italiano, matematica e lingua/e straniera/e.
Si tratta di un piano che vaneggia di lanciare un lungo ponte scolastico attraverso tutta l’estate, mesi di luglio e agosto compresi, consacrati al consolidamento delle competenze di base e al recupero della socialità. La grande pubblicità mediatica che il Ministero ha voluto dare al Piano Scuola Estate ha favorito l’idea che le scuole potessero diventare un grande campo estivo, aperto a migliaia di giovani, in una logica non tanto di recupero scolastico, ma soprattutto negli ordini inferiori, di custodia.
Ciò è di per sé sbagliato, dato che la scuola è un’istituzione educativa e non di custodia, ma in ogni caso le risorse disponibili non lo consentirebbero. I 510 milioni destinati al Piano Scuola Estate vengono per la maggior parte (320 milioni) dai finanziamenti europei dei progetti PON previsti nel periodo 2014-2021 a cui si aggiungono altri fondi previsti dal governo per attività previste dal Piano Sostegni e altri ancora destinati al recupero della dispersione scolastica.
Tali fondi, apparentemente importanti, consentiranno l’attivazione, per ciascun istituto, di non più di tre moduli-classe di circa venti alunni, dunque in totale 60/70 bambine o ragazzi. Dunque, una percentuale minima sul totale degli alunni degli istituti italiani e per un periodo limitato. Tra l’altro, l’essersi appoggiati ai progetti PON sembra una scelta discutibile, poiché è noto che essi hanno funzionato sempre piuttosto male.
A tali difficoltà, si deve aggiungere che la partecipazione degli studenti, ma soprattutto degli insegnanti, al Piano Estate è volontaria. Escludendo dal progetto gli insegnanti impegnati negli esami, è legittimo chiedersi quanti degli altri vorranno aderire, dopo un anno scolastico passato muovendosi tra didattica a distanza esercitata tra difficoltà materiali infinite, dovute alla scarsità di attrezzature, tamponi, quarantene e rientri a scuola a volte durati pochi giorni.
Insomma, dopo un anno scolastico di estrema fatica, che fa solo desiderare le vacanze e una ripresa sicura e serena. Ma è anche difficile immaginare quanti studenti aderiranno, dopo i medesimi stress e anche di fronte alla povertà delle proposte educative e sociali delle scuole.
Ho avuto modo di visionare qualche programma dei Piani Estate delle scuole superiori milanesi. Mi ha colpito in particolare quello di un istituto che propone, nella seconda metà di giugno, attività di karaoke, di giochi di società, sfilate di moda, maquillage. Sarebbe questo il recupero di quanto gli studenti hanno perso nell’anno scolastico? E quale livello di socialità si vuole costruire con simili attività?
Al di là del sorriso suscitato da qualche iniziativa così estemporanea, esiste tuttavia un problema politico importante nel Piano Estate. Prevedendo che l’adesione volontaria degli insegnanti sarà piuttosto bassa se non infima, è possibile per le scuole avvalersi, soprattutto per le attività non legate direttamente alle materie scolastiche, della collaborazione di “esperti” esterni.
Si tratta di una questione importante, poiché attraverso questa opzione si aprono le porte all’entrata delle cosiddette “cooperative” del terzo settore nel sistema pubblico. In buona parte, tali cooperative lo sono solo di nome, essendo in realtà aziende che impiegano e rivendono mano d’opera, talora qualificata, a basso prezzo.
In pratica, in questo modo si estende l’esternalizzazione di servizi pubblici sempre più importanti ai privati, aggirando la necessità di assunzione di personale scolastico. Questo fatto peraltro già avviene per quanto riguarda il sostegno agli alunni disabili, dove capita che essi sano seguiti da “assistenti” di cooperative anziché da insegnanti di sostegno.
Tornando al tema valutazione, gli studenti che affronteranno quest’estate l’esame di maturità riceveranno un nuovo documento: il Curriculum dello studente. Sarebbe sbagliato sottovalutarne l’importanza e ritenere che sia uno dei tanti pezzi di carta di cui la scuola fa collezione.
Nel Curriculum dello studente, infatti, saranno citate le attività scolastiche ed extrascolastiche non direttamente riconducibili alle materie di studio svolte dai giovani. In una prima parte saranno indicate le attività di PCTO (già alternanza scuola-lavoro) che in questo modo trovano nuova consacrazione, i crediti scolastici e le esperienze di apprendistato.
Nella seconda verranno elencate le certificazioni ottenute dallo studente soprattutto ma non solo nei campi delle lingue straniere e dell’informatica. La terza parte sarà invece dedicata alle attività svolte nel campo professionale, sportivo, musicale, artistico, di cittadinanza attiva e volontariato.
In questo nuovo documento alcuni intellettuali che si pretendono di sinistra hanno cercato di trovare un valore positivo e democratico. In effetti, perché non valorizzare i lavori svolti, magari in estate, facendo il cameriere, l’istruttore sportivo o la raccolta delle mele? Oppure la partecipazione a un campo di lavoro per la beneficienza o per la pulizia del territorio?
Una prima osservazione è che tutto ciò apre la porta all’arbitrarietà. Se si valuta la partecipazione a un’iniziativa scoutistica, si potrà valorizzare egualmente la partecipazione al collettivo politico della scuola (tra l’altro valido momento di educazione civica, ma spesso ostacolato se non represso) oppure, dove esistono, la militanza nelle brigate di solidarietà nate durante la pandemia per iniziativa di tanti movimenti di sinistra? In base a quale criterio potranno essere validate le attività dello studente?
Tuttavia, il problema non si ferma a questo, ma si allarga alle vere e proprie discriminazioni di classe. Per esempio la partecipazione ai corsi di lingua e d’informatica o i soggiorni studio all’estero costano e non tutti possono permetterseli, e così purtroppo anche molti corsi artistici e musicali.
Infine, dando una valutazione generale del Curricolo dello Studente, è evidente che tale documento si colloca nel solco del principio dei “crediti” ed è un chiaro invito agli studenti a farsi “imprenditori di se stessi” (o venditori di se stessi’), note panzane tratte dall’armamentario liberista.
In questa logica, tra l’altro, esiste il rischio che il Curriculum dello studente finisca con il sostituirsi al diploma di maturità, con il conseguente svilimento del valore legale dei titoli di studio. Non è un caso che il Curriculum dello Studente (tra l’altro declinato esclusivamente al maschile) sia un frutto tardivo della legge 107/2015, la cosiddetta “buona scuola” che tanti danni ha provocato e che nacque nel momento ultraliberista e ultraprivatizzatore del governo Renzi, in abbinamento in particolare con il funesto Jobs act.
Infine, guardando al prossimo anno scolastico, i dati diffusi dal Ministero confermano la contrazione delle iscrizioni alle scuole, con un ordine di grandezza che potrebbe arrivare alle 100.000 unità. Si tratta del riflesso del calo della natalità, dovuto alle condizioni di lavoro sempre più precarie dei giovani, ai bassi salari e agli affitti esorbitanti nelle principali città.
Tale calo potrebbe costituire l’occasione per intervenire sull’eccessivo numero di alunni per classe, uno dei problemi della scuola italiana a prescindere dalla situazione pandemica.
Purtroppo, al momento non si ha notizia di nuove disposizioni in merito alla formazione delle classi per il prossimo anno scolastico, quindi è legittimo temere che ci saranno ancora classi da trenta alunni, come accade nei licei dove i dirigenti sono tenuti, in prima e in terza, a formare classi di almeno 27 alunni, che, considerando gli avanzi della divisione degli iscritti nelle classi in base a tale numero, ne fa lievitare la composizione sino a 29/30 studenti.
Probabilmente al Ministero la diminuzione delle iscrizioni è vista solo come l’occasione di assumere qualche insegnante in meno piuttosto che migliorare il servizio (classi meno numerose, tempo pieno, interventi di sostegno ecc.)
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