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Indagine sulla trattativa Stato Mafia (seconda parte)

E’ il 3 novembre del 1993 quando il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro pronuncia il suo “Non ci sto!”  . Scalfaro in quel discorso parla di “gioco al massacro” e denuncia come quelle accuse fossero una “rappresaglia” della classe politica travolta da Tangentopoli. E’ una denuncia pubblica dello scontro frontale ormai in corso nel paese tra poteri forti, quelli che andavano declinando, quelli che venivano affermandosi e all’interno di entrambi.

Alcuni mesi prima, a maggio, erano esplose le bombe a Roma e Milano. Altre ne esploderanno a luglio di nuovo a Roma e a Firenze. Le massime autorità dello Stato – Ciampi premier, Spadolini presidente del Senato, Napolitano presidente della Camera – concordano nel ritenere che le bombe (e i morti) hanno un carattere ricattatorio e che la matrice sia mafiosa.

Eppure tutti e tre, anzi quattro con Scalfaro, quantomeno “intuiscono” che non può essere solo la componente corleonese della mafia ad avere organizzato una operazione di queste dimensioni e sul piano nazionale. Nelle memorie di Ciampi e, in modo più sfumato, nella deposizione di Napolitano ai giudici di Palermo si accenna alla preoccupazione per un colpo di stato.

Ma potevano essere solo delle azioni dei clan mafiosi corleonesi a far parlare di colpo di stato? Oppure, con maggiore probabilità, dentro e non parallelamente allo Stato era iniziato un processo di profonda scomposizione e ristrutturazione del suo apparato?

Una nota del Sismi del 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), segnalava che: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”.

Il 6 agosto ’93, ci fu un vertice del Cesis (il comitato di coordinamento dei servizi segreti militare e civile). Oltre ai capi dei servizi sono presenti il capo della polizia Parisi, il capo della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) Gianni De Gennaro, il vicecomandante del Ros dei carabinieri Mori e il vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio.

Le conclusioni sull’analisi degli attentati sono piuttosto generiche, molto generiche : si va dalla matrice mafiosa, al terrorismo serbo, o palestinese, al narcotraffico internazionale. Nebbia e depistaggio totale dunque. Formalmente nessuno evoca il pressing delle organizzazioni mafiose per la revoca del 41bis nelle carceri. Ma, segnala giustamente Marco Travaglio, perché mai alla riunione c’era anche il vicecapo del Dap Di Maggio se la questione del 41bis non era tra le piste prese in esame?

Non solo. A giugno, il superiore di Di Maggio, Capriotti aveva scritto al ministro della Giustizia Conso sollecitando un taglio delle misure di 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”.

Quattro giorno dopo il vertice al Cesis, è il 10 agosto, il capo della Dia, Gianni De Gennaro firma un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”.

La parola “trattativa” comincia però a comparire negli atti ufficiali. E’ un rapporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato (guidato allora da Antonio Manganelli, deceduto non molto tempo fa) e destinato alla Commissione Antimafia presieduta da Violante a scrivere: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”.

Il 5 novembre, due giorni dopo il “non ci sto” di Scalfaro, il ministro della Giustizia Conso (con una decisione che afferma di aver preso tutta da solo) non rinnova le misure di 41bis a 334 detenuti di mafia nelle carceri italiane.

Sul piano politico, a novembre del 1993 ci furono le prime elezioni dirette per i sindaci a Roma, Napoli e Milano. Al ballottaggio, il 3 dicembre, per la prima volta, vanno due fascisti: Fini a Roma, la Mussolini a Napoli. Berlusconi annuncia che voterebbe per i due candidati sindaci fascisti per “fermare la sinistra”. I candidati sindaci del centro-sinistra vincono i ballottaggi evocando la possibilità che il Pds possa essere il partito in grado di “capitalizzare” politicamente la crisi emersa con Tangentopoli. L’operazione Forza Italia comincia a palesarsi per bloccare tale scenario.

Se a Roma una buona parte della vecchia Dc si schiera con Fini, a Napoli, secondo il pentito di camorra Domenico Bidognetti (fratello del boss Francesco), i clan giocano trasversali. Da una parte c’erano i Casalesi che appoggiavano Alessandra Mussolini, dall’altra i Moccia, che invece erano per Antonio Bassolino, il quale uscì vincente al turno di ballottaggio.

I giochi politici e le vecchie alleanze vengono dunque completamente rimescolate. Il biennio 1992-1993, con la crisi politica conosciuta come Tangentopoli, riscrive lo scenario delle classi dominanti e ridisegna la geografia politica del paese.

I blocchi di potere consolidatisi dal dopoguerra agli anni Ottanta si dividono e si ricompongono sulla base della nuova situazione internazionale (fine della guerra fredda con l’Urss, varo del Trattato di Maastricht e accelerazione nel processo che porta all’Unione Europea) e in un contesto in cui in Italia esplode la prima crisi del debito pubblico (1992) che spiana la strada alle “terapie d’urto” (la stangata del governo Amato) e ai governi “tecnici” (Ciampi).

Il Pds, il principale partito sorto dallo scioglimento del Pci, dovrebbe approfittare della situazione ed invece dà la netta idea di “camminare sulle uova”, anzi di adeguarsi completamente al nuovo contesto.

C’entrano qualcosa in questo atteggiamento gli “accordi indicibili”?

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