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Quando leggo “green”-qualcosa metto mano alla fondina

“Resilienza”, “green deal”, “green pass”, “transizione ecologica” et et, sono tutte parole vuote intorno alle quali ruotano le grandi narrazioni del potere che servono al potere stesso per illuderci che, questa volta, hanno preso sul serio la possibilità di una reale svolta.

Ed invece, come al solito, stanno mettendo in scena soltanto dei cambiamenti di facciata dietro i quali si nascondono le grandi manovre di messa in sicurezza degli interessi e dei privilegi economici di pochi sulla pelle dell’umanità intera.

Ora sappiamo anche che la vecchia Europa ha tramato nell’oscurità contro India e Sudafrica che chiedevano alla comunità internazionale di liberalizzare i brevetti sui vaccini proprio mentre gli epidemiologi di tutto il mondo ci avvisavano che, senza vaccinare le popolazioni dei paesi più poveri, il coronavirus avrebbe continuato a mutare ed a viaggiare indisturbato, dappertutto. E così è stato. Puntualmente, sono arrivate da noi (ma guarda un po’) la variante del Covid indiana e quella sudafricana.

Ecco perché, con queste premesse, misure come il “green pass” finiscono per apparire come la più classica delle foglie di fico buona solo a nascondere l’inerzia del nostro paese quanto quella dell’intera Unione Europea rispetto alle cause principali di diffusione del coronavirus. E così che il nostro governo soccombe alla logica ordoliberista della vecchia Europa spostando la responsabilità dei nuovi contagi sul piano della mera responsabilità individuale.

E, intanto, non viene messa in campo nessuna misura per rendere efficace la tracciabilità dei contagi; si crepa sul posto di lavoro al ritmo di tre morti al giorno in aziende quasi mai in regola con le più elementari norme di sicurezza; le scuole continueranno ad avere classi con 30 alunni (ed a rischio di crollo); i mezzi pubblici continueranno ad essere tremendamente affollati nelle ore di punta.

Però, nel discorso pubblico, pare farsi strada l’idea che basterà un codice a barre sul nostro smartphone per rassicurarci sulle buone intenzioni e sull’effettivo impatto delle decisioni di chi ci governa in tema di lotta contro la pandemia.

Il professor Andrea Crisanti, appena due settimane, aveva nuovamente avvertito che «senza tracciamento i vaccini non bastano» e che mancano ancora progettazione, coordinazione, strumenti informatici, infrastrutture, investimenti economici adeguati e regole più stringenti sull’isolamento delle persone.

E, invece, anche davanti alla più grande pandemia degli ultimi 100 anni assistiamo ad una ridda di provvedimenti emergenziali, ma mai che ci si trovi davanti ad un piano basato su un’analisi strutturale del fenomeno.

Del resto, qualsiasi tentativo di pianificazione da parte di uno stato membro dell’Unione Europea andrebbe a cozzare contro il totem della concorrenza e del libero mercato, ovvero, contro i principi cardini di tutta l’architettura comunitaria: il vero e proprio muro di gomma contro cui si va ad infrangere implacabilmente ogni legittima velleità di affrontare qualsiasi emergenza, pandemia da coronavirus compresa.

È questa la variabile indipendente/assioma teologico che spiega il basso profilo e la ridda di provvedimenti di natura esclusivamente emergenziale in luogo di una visione di medio e lungo periodo in grado di contrastare in modo organico i vari profili in cui si manifesta una pandemia di queste inusitate proporzioni.

Come non ricordare il clamoroso fallimento della strombazzatissima applicazione “Immuni”? 11.298 positivi che lo segnalarono all’app e 88.217 le notifiche inviate. Pochissimi e, con l’impennarsi della curva, nell’autunno 2020, “Immuni” finì ben presto nel dimenticatoio.

Una rappresentazione plastica dell’impotenza e della mediocrità di una classe dirigente incapace di rompere le compatibilità di un quadro politico e giuridico – quello eurocomunitario – il cui nucleo centrale è la tutela degli interessi del grande capitale a fronte di una competizione globale senza esclusione di colpi ed a scapito totale del bene comune.

Tutta la retorica sulla caduta del muro di Berlino, in poco più di trent’anni, si è rovesciata nel suo esatto opposto: l’ordoliberismo del superstato europeo.

L’ordoliberalismo[1] è una variante del pensiero neo-liberale nata e sviluppata dalla scuola economica di Friburgo che si basa sul presupposto che il libero mercato ed il laissez faire da soli non siano in grado di garantire né il mantenimento della concorrenza né “l’equità sociale”.

Lo Stato, pertanto, deve limitarsi a fornire un quadro giuridico attraverso cui l’economia di mercato possa funzionare: tutelando la proprietà privata e la libera iniziativa privata e stabilizzando la moneta.

È una sorta di teocrazia/teologia priva di qualsiasi base scientifica ma assolutamente compatibile con gli obiettivi aziendali ed azionari di grandi gruppi privati, multinazionali e banche d’affari in grado di trasformare ogni crisi in nuova opportunità di moltiplicazione di profitti e dividendi.

La pandemia esiste e come. Ma l’emergenza pandemica si è ben presto trasformata nell’ennesima operazione di ristrutturazione del capitale su scala mondiale. E nessuno disturbi il manovratore.

Stando così le cose, tutto mi suggerisce che continueremo a vivere così, per chissà quanto altro tempo, nell’eterna prorogatio di uno stato di emergenza sempre più insopportabile.

[1] Il termine “Ordoliberalismo” (in tedesco “Ordoliberalismus”) fu coniato nel 1950 da Hero Moeller e si riferiva alla rivista accademica “Ordo”, fondata nel 1936 dall’economista Walter Eucken, e a cui collaboravano sociologi come Wilhelm Röpke e Alexander Von Rüstow, e giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth

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