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Il Governo programma il ritorno alla legge Fornero: l’attacco alle pensioni è servito

Il Governo Draghi si conferma il Governo della Restaurazione, e quale campo migliore per confermarlo se non quello della previdenza sociale? A riprova di ciò, le cronache di questi giorni ci parlano con insistenza della prossima modifica alla legislazione sulle pensioni che anima i dibattiti nella maggioranza.

Prima l’ipotesi di ‘quota 102’ estesa ai prossimi anni; poi l’allargamento dell’APE sociale ad una platea più vasta ma pur sempre limitata di lavoratori; ora si torna al balletto delle quote: ‘quota 102’ per il 2022, ‘quota 104’ dal 2023, e poi situazione da valutare per l’anno successivo con sicuro ritorno alla norma dei 67 anni.

Numeri e numeretti dietro i quali si cela ormai palesemente la chiara volontà di tornare alla legge Fornero dichiarando però di non volerci tornare. Un giochino ideologico sin troppo plateale per essere creduto anche dai più distratti e dai meno inclini a fare le somme.

Il ritorno alla legge Fornero, infatti, è scritto nelle cifre del Documento Programmatico di Bilancio (DPB) inviato a Bruxelles che il Governo non intende smentire. Tali cifre sono talmente esigue (600 milioni per il 2022; circa 500 per i successivi due anni) da mettere nero su bianco che si tratterà dell’ennesima toppa e non di una riforma onnicomprensiva. Il problema, come al solito, è che la toppa è peggio del buco. Vediamo perché.

Quota 102 significa poter andare in pensione con la combinazione di 64 anni e 38 di contributi. Ovvero uno scatto di due anni anagrafici rispetto a quota 100 a parità di età contributiva. Quota 104 che scatterebbe, nell’ipotesi tracciata dal Ministro dell’Economia Michele Franco, dal 2023, si tradurrebbe nel binomio 66 anni di età e 38 di contribuzione come doppio requisito di accesso alla pensione.

Lo status quo stabilito dalla legge Fornero, invece, che tornerebbe a valere in caso di abolizione sic et simpliciter di quota 100, porterebbe già dal 2022 l’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni (e almeno 20 anni di contributi), ferma restando la possibilità della cosiddetta “pensione anticipata”, ovvero la possibilità di accedere al pensionamento con 42 anni e 10 mesi di carriera per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, senza requisiti anagrafici.

Insomma, con quota 104 a regime, ovvero tra soli 14 mesi, si tornerebbe ad un solo anno di distanza da quei requisiti rigidissimi che le leggi pensionistiche del periodo 2011-2012 avevano definito per gli anni a venire prevedendo peraltro aumenti automatici dell’età pensionabile legati all’aumento della vita media attesa.

E dal 2024 il probabile ritorno diretto allo status quo delle leggi Sacconi-Fornero, ovvero a quella normalità tanto raccomandata da tutte le linee guida europee, dall’OCSE e da tutta la corte di economisti esperti al servizio permanente dello smantellamento dello stato sociale.

Una presa in giro così sonora che tutto il mondo sindacale confederale, in genere poco incline ad opporsi con decisione al destino ineluttabile delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro e dello stato sociale, ha dovuto mostrare il suo pieno disappunto fino a definire la misura un vero e proprio sfottò ai danni dei lavoratori.

Del resto, il livello di derisione della misura viene mostrato con chiarezza dalla platea ristrettissima di potenziali beneficiari di quota 102, e ancor di più di quota 104. Si parla di circa 10.000 lavoratori coinvolti (8.524 nel 2022 e 1.924 nel 2023). Una cifra che definire “esigua” è riduttivo.

Se si considera che i beneficiari potenziali di quota 100 nel 2019 erano più di 300.000 lavoratori, si capisce molto bene l’impatto restrittivo del passaggio, che ha peraltro l’esplicito obiettivo di tornare nel giro di due anni massimo alle durezze della legge Fornero, ovvero ad un numero pari a 0 di beneficiari di misure di flessibilità in uscita.

Alla beffa generale si aggiunge la volontà di abolire ‘Opzione donna’, quella misura che consentiva alle donne (particolarmente penalizzate dalla misura del 2012, in cui si equiparò l’età pensionabile maschile e femminile provocando di fatto uno scalone improvviso per le donne) di andare in pensione con 58 anni di età e almeno 35 di contributi calcolando però la pensione con il solo computo contributivo anche per la residua quota retributiva (dunque con forte penalizzazione sull’assegno previdenziale).

Si abolirebbero così tutte le residuali forme di flessibilità in uscita ad oggi ancora esistenti.

Nell’arco politico di sostegno al Governo delle larghissime intese di Mario Draghi, solo la Lega con timidezza e palese velleitarismo si dichiara “contraria” al meccanismo proposto; ma si tratta, come sempre, di pure dichiarazioni di intenzioni.

Ricordiamo a chi avesse la memoria corta che fu proprio la Lega a volere la misura di quota 100 come un mero esperimento a termine di carattere triennale, ben sapendo che ciò avrebbe significato nel volgere di pochissimo tempo il ritorno alla ‘tanto odiata’ legge Fornero, senza per altro averne mai stravolto la logica.

Peraltro, il presunto alter ego della Lega nella maggioranza di Governo – il PD di Enrico Letta, che pure si dichiara contrario ai meccanismi proposti – lo fa in una maniera altrettanto odiosa.

Le parole di Letta, infatti, chiariscono quale sia l’obiettivo. Non solo tenere in piedi la legge Fornero, ma riattivarla il prima possibile, già dal 2022, pur mantenendo alcune opzioni di flessibilità, tra cui Opzione donna, che verrebbero tuttavia spazzate dall’introduzione di Quota 102 prima e Quota 104 poi.

È evidente come le sorti delle lavoratrici e dei lavoratori non hanno speranza di migliorare, qualsiasi opzioni passi; è altrettanto palese come la vecchia tecnica di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri sia ancora viva e vegeta.

Checché ne dicano Letta o Bonomi, infatti, non vi è modo di attribuire alle varie forme previste di anticipazione dell’età pensionabile la colpa di “penalizzare giovani e donne”.

Il problema è l’esatto opposto: le misure di austerità, di cui l’innalzamento dell’età pensionabile rappresenta una faccia odiosissima, condannano giovani e donne alla disoccupazione e a stipendi da fame, rendendo altresì un miraggio il raggiungimento di una pensione dignitosa.

Pur senza nominarla mai, dunque, il ritorno alla legge Fornero è accettato da tutti.

Non dirlo esplicitamente rappresenta solo diversivo ideologico per non mostrarsi troppo allineati a quella che è diventata nel tempo un vero e proprio simbolo della carneficina pensionistica del fu governo Monti.

A parole sono tutti o quasi tutti (si distingue forse Italia Viva per fedeltà ideologica al liberismo ostentato) per superare lo scalone che il ritorno allo status quo pre-Quota 100 implicherebbe dal 1° gennaio 2022.

Nei fatti, le proposte per superare lo scalone, lungi dal prevedere una stabilizzazione duratura di meccanismi di uscita flessibile, ambiscono a trasformare lo scalone in un paio di scalini che porteranno punto e daccapo alla legge Fornero dal 2024.

Insomma, tutti spingono per tornare alla legge Fornero, ma cercano il modo più presentabile di farcelo sapere e il modo meno traumatico di farlo digerire a milioni di lavoratori cornuti e mazziati. L’eterna lezione del Gattopardo che non muore mai.

Il sistema pensionistico e l’intero corpus ferito e moribondo del nostro stato sociale meritano invece ben altro: una rivisitazione radicale della logica di computo delle pensioni che superi le angustie del sistema contributivo, riportando le pensioni ad un livello dignitoso per tutti e, contestualmente, garantendo meccanismi non penalizzanti di ampia flessibilità di uscita.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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