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Dal calcio-illusione al calcio-delusione: ritratto di una “religione” italiana

Quando l’Italia, l’anno scorso, vinse il campionato europeo di calcio, esplose, per un successo tutto sommato meno importante della qualificazione ai Mondiali, un giubilo popolare che le massime autorità dello Stato, il governo e il sistema dei ‘mass media’ si affrettarono a convertire in una potente arma di distrazione rispetto alla crisi economica, sanitaria e morale di un paese più che mai bisognoso di fare del calcio- come sempre avviene con l’uso politico di questo enorme apparato ideologico e spettacolare – un anestetico, per un verso, e un eccitante, per un altro verso.

Il tutto all’insegna di un “surrealismo di massa” in cui lo sventolio delle bandiere tricolori si accompagnava alle sponsorizzazioni pubblicitarie dei protagonisti dell’impresa calcistica (nella duplice accezione di vittoria conseguita in una gara internazionale e di stimolo all’espansione dei ‘faux frais’ del capitale in funzione più o meno anticiclica).

Sennonché con la recente, bruciante sconfitta della Nazionale ad opera della Macedonia e la conseguente esclusione dai Mondiali di calcio del 2022, il periodo più nero del calcio italiano raggiungerà i ragguardevoli confini cronologici del ventennio (2006-2026).

Nel frattempo, eziologia della sconfitta calcistica ed elaborazione del relativo lutto stanno già intristendo la scena dei ‘mass media’. «Ma la Nazionale non è la Nazione», sentenzia perentoriamente chi si preoccupa delle analogie che molti hanno cercato di istituire tra esiti calcistici ed esiti socio-economici.

Parimenti, in polemica con chi ha scritto che «la Nazionale è lo specchio della Nazione» qualcun altro sarà tentato di enunciare il seguente dilemma: «Ha davvero senso usare la Nazionale come metafora del paese? La risposta è senz’altro no», e lo proverà attingendo conferme dalla storia e tenendo d’occhio i processi attuali,

«A consigliarlo dovrebbero essere innanzitutto i precedenti. Abbiamo vinto due titoli mondiali consecutivi nel 1934 e nel 1938. Dobbiamo concluderne che la seconda metà del Ventennio è stato il più sfolgorante momento di storia patria?».

Tuttavia, sembra difficile negare che non vi sia qualche buona ragione a sostegno della tesi della corrispondenza tra andamento calcistico e corso socio-economico del paese, tesi che affiora sotto traccia nei commenti circa la deludente ‘performance’ della nazionale di Mancini.

Osservo, d’altronde, che, a parte i premi di consolazione ottenuti nei tornei europei, non mi pare che l’Italia attraversi uno dei suoi momenti migliori. Forse, ammesso e non concesso che le vittorie (o le sconfitte) calcistiche siano una metafora della ripresa (o del declino) del nostro paese, potrebbero essere considerate almeno una sineddoche. Forse sono solo una coincidenza.

Una cosa però è certa, anche a non voler rammentare la sarcastica battuta di Winston Churchill, secondo il quale “gli italiani vincono le partite di calcio come se fossero delle guerre e perdono le guerre come se fossero delle partite di calcio“: un buon numero di quei ragazzotti, pagati a peso d’oro e vezzeggiati dalla stampa e dalla tifoseria, tutto sembrano, con i loro osceni tatuaggi (escluse le debite eccezioni), tranne che dei professionisti degni di stima e di rispetto (per intenderci, all’altezza di un Dino Zoff o di un Gigi Riva).

Ma vi è di più: mai come in questi ultimi decenni, a partire dal calcio per giungere alla politica, la classe dirigente italiana è riuscita a battere sulla scena mondiale, per la totale mancanza di stile, di coerenza e di correttezza che ha contraddistinto i suoi più famosi esponenti, ogni possibile primato di sciatteria, se non di antipatia.

Occorre allora cercarne le ragioni (la modernizzazione tardiva, l’antico vizio del trasformismo politico, un “imperialismo straccione”, una intellettualità, quando non distratta, servile, la debolezza ideologica del movimento operaio) ed impegnarsi ad invertire una tendenza che è, da tutti i punti di vista, semplicemente rovinosa.

Del resto, la catena di affarismo, corruzione, illegalità, violenze, abusi, frodi e soprusi, rivelata a suo tempo dalle inchieste della magistratura, ha dimostrato in modo inequivocabile che il calcio è, oltre che un apparato ideologico di Stato vòlto a diffondere i ‘valori’ della competizione selvaggia, della flessibilità, della precarietà, della venalità mercenaria, del nazionalismo e del razzismo, un’industria che appartiene organicamente al sistema capitalistico di produzione, di scambio e di consumo.

L’organizzazione capitalistica del calcio ha ormai ucciso il calcio come sport fondato sul piacere e sulla socializzazione, nonché sui valori della competizione congiunti con quelli del rispetto e dell’amicizia.

Tale organizzazione si fonda invece sui due meccanismi più odiosi del sistema capitalistico: da una parte, un apparato che ricerca il massimo profitto (i dirigenti e gli stessi giocatori non si fanno scrupolo né di ricorrere a società ‘off-shore’ in paradisi fiscali al fine di riciclare il denaro sporco, né di corrompere, ricattare e intimidire gli arbitri, né di intrallazzare all’interno dei club, né di finanziare il doping, né di lucrare sui diritti televisivi e su ogni tipo di ‘marketing’, né di organizzare giri di scommesse clandestine).

Dall’altra, un’ideologia fondata sui princìpi del superuomo, della forza, della violenza e, nel contempo, su uno spirito di prevaricazione che unisce la sguaiataggine al teppismo (tanto che nessuno si stupisce se, da un capo all’altro dell’Europa, i ‘commandos’ di tifosi più duri e aggressivi rivendicano esplicitamente concezioni razziste e legami con l’estrema destra nazifascista).

Dal canto loro, le diverse “famiglie” del pallone e le stesse istituzioni ai diversi livelli (Fifa, Uefa, Coni, Figc) sono immerse nell’affarismo fino al collo. In realtà, dietro le quinte di uno spettacolo così bello, che entusiasma centinaia di milioni di persone, opera, come un tumore che genera continue metastasi, il capitalismo mafioso.

La passione per il calcio coincide quindi oggettivamente, per milioni di persone del tutto inconsapevoli del rapporto tra forma e sostanza, con la necrofilia. L’imputridimento dell’apparato calcistico mostra infatti fino a che punto sia arrivato il processo di decomposizione dell’intera società capitalistica.

Per queste ragioni, le forze sane, che pure esistono nelle istituzioni, potranno soltanto curare i sintomi (e bene spesso nemmeno quelli), ma non potranno minimamente incidere sulle cause della malattia che ha colpito questo gioco, il cui volto, illuminato un tempo dalla tersa e pura bellezza della gioventù, somiglia sempre di più ad un ceffo sfregiato dalla bruttezza e dal disfacimento.

Quel ceffo che, come accade nel romanzo di Oscar Wilde, costituendo lo stadio finale di una metamorfosi ad un tempo materiale e morale, etica ed estetica, deforma il ritratto giovanile di Dorian Gray e lo rende tanto irriconoscibile quanto irrecuperabile.

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